Gli schermi cult frantumati ed espansi di un artista scozzese
Scozia MOSTRA ARTIST ROOM: DOUGLAS GORDON
Scozia MOSTRA ARTIST ROOM: DOUGLAS GORDON
Nella miriade di eventi artistici (cliccare il link www. generationartscotland.org) che la Scozia ha programmato in questa impasse storica si insinua la personale «Artist Room: Douglas Gordon» (visibile fino all’11 di ottobre alla The Caithness Horizons Gallery di Thurso) e che attraversa i lavori più famosi e straordinari del beffardo Douglas Gordon.
L’artista scozzese, uno degli artisti più intriganti del panorama internazionale contemporaneo, pluripremiato nel corso degli anni: il Turner Prize nel 1994, premio speciale della Biennale di Venezia nel 1997, Hugo Boss Prize, Les Rencontre d’Arles del 2011 nel 1998 fino al Käthe Kollowitz Preis del 2012.
Il senso di identità scozzese possente ma non soffocante che connota Gordon (nato a Glasgow il 20 settembre 1966) è rigiocato ed esteso concettualmente in uno dei suoi primi lavori, quello sgangherato autoritratto Selfportrait as Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Myra Hindley, as Marilyn Monroe (1996) che attraverso l’identificazione multipla messa in scena, rimanda alle differenti sollecitazioni che lo avvincono. Se, infatti, l’autoritratto richiama l’iconografia di celebrities del mondo dell’arte, della musica, del cinema nonché del mondo della cronaca nera, come è il caso della baby-killer inglese Hindley, allo stesso tempo, il selfportrait rinvia al paradigma psicotico che fonda i suoi lavori e che viene elaborato attraverso la convergenza di cinema, rock’n roll, letteratura, psichiatria e tematiche del madness. Selfportrait as Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Myra Hindley, as Marilyn Monroe fu fatto da Gordon nel 1996, lo stesso anno in cui vinse a Londra il Turner Prize, e che l’artista intendeva presentare come una sorta di sua confession. Più che sull’idea di identità fissa, Gordon ama precipitare nelle sue scissioni e estensioni.
La sua appartenenza culturale, la trasversalità degli interessi (il cinema soprattutto, nel 2008 ha perfino fatto parte della Giuria della 65ma Mostra del cinema di Venezia), delle tentazioni e dei rapporti sociali lo deviano da una egotistica visione del mondo dell’arte, racchiusa in se stessa. La sua lunga produzione, infatti, è avviluppata essenzialmente sul concept del re-enactment di materiale già precostituito su cui interviene per svuotarlo e riscriverlo. Sostanzialmente la pratica adottata da Gordon è quella del found footage. Dal materiale d’archivio al film hollywoodiano, dagli home movies al documentario televisivo, dal cinegiornale allo spot pubblicitario, dal film di sala a quello di serie B, ogni immagine può essere presa, smontata, montata e risignificata.
Già dal prolifico lavoro Pretty much every word written, spoken, heard, overheard from 1989…(work in progress) in cui la moltiplicazione delle immagini ripescate nell’universo pulp/amatoriale/illegale/ufficiale viene dislocata in un apparato informale visivo parcellizzato e che attesta, senza voler indagare ancora, quanto la fonte ossessiva di Gordon sia lo schizofrenico mondo dello show che va dal cult movie hollywoodiano al bootleg clandestino. Spesso e volentieri l’artista ha esplicato quanto i suoi lavori siano la cospirazione di elementi trovati (l’immagine, il testo, il suono, la canzone) e rigiocati. La pratica risignificativa usata da Gordon è alla base del metodo decostruzionista per ordirne una disseminazione del senso. Il suo procedimento, infatti, interferisce sull’ «oggetto trovato» per avventurarlo in una nuova dimensione linguistica.
Su tutte le sue opere eccelle la videoinstallazione 24 Hours Psycho 1993). Aderendo alla pratica del found footage, Gordon, si riappropria dell’oggetto da risignificare attraverso una scelta precisa del materiale originale e una altrettanto precisa volontà di indagare su soggettività estreme. Inoltre ciò che maggiormente interessa Gordon è la frammentazione dell’atto del vedere e del percepire all’interno dello stesso prodotto.
La ripresa del cult movie di Alfred Hitchcock Psycho 1960), del genere thriller, imperniato sulla figura di Norman Bates(Anthony Perkins), lo psicopatico dotato di doppia personalità che uccide, efferatamente, la povera Marion (Janet Leigh) mentre fa la doccia nel Bates motel da lui gestito, risponde in pieno alle esigenze tematiche e formali di cui Gordon ha bisogno. Non solo Psycho è un cult che è scolpito nella memoria collettiva come simbolo della paura attraverso un ritmo che tende a spiazzare la fruizione, in un altalenante up and down emozionale, concentrando il suo climax nella scena della doccia e poi lasciando lo spettatore in una sospensione emotiva per tutto il resto della proiezione. 24 Hours Psycho è una operazione di decostruzione totale del cult di Hitch attraverso la manipolazione della sua stessa durata.
Lo Psycho di Hitch dura effettivamente 109 minuti, quello di Gordon 24 ore appunto. Gordon non fa altro che scompaginare la magia della successione di 24 fotogrammi al secondo e sovvertire il principio inventivo del cinema. Attivando lo slow motion l’artista azzera, in qualche modo, il plot filmico. Allenta la velocità e dai famosi 24 fotogrammi al secondo Gordon li fa scivolare a 2 fotogrammi al secondo. Follia pura! Lo Psycho di Hitch collassa. L’immagine è talmente rallentata fino a sgranarsi. Il suono è cancellato.
Stesso stritolamento riserva nella video installazione Through a Looking Glass del 1999. Non tralasciando nulla al found footage precedente, Gordon trascina nel suo detournamento il Taxi Driver di Martin Scorsese (1976)e con esso il genere filmico, la psicosi del protagonista, la colonna sonora composta da Bernard Herrmann e altri strascichi di carattere psico-clinico. Il video di Gordon consiste nel detournamento prospettico del monologo coscenziale di Travis, poiché gli consente di traslare la percezione dello spettatore dalla superficie dello specchio alla superficie dello schermo. È questo limine psicotico che interessa Gordon e che ancora una volta avvolge la dimensione dell’io e le sue molteplicità così come sembra marcare nella sua videoinstallazione A Divided Self I e A Divided Self II del 1996.
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