Gli operai: scarsa sicurezza, ma la Dayco non si ferma
Abruzzo Negli stabilimenti la produzione va avanti nonostante le proteste dei sindacati: facciamo cinghie per la trasmissione, non prodotti essenziali. I lavoratori in fabbrica dotati di una mascherina e un solo paio di guanti in lattice
Abruzzo Negli stabilimenti la produzione va avanti nonostante le proteste dei sindacati: facciamo cinghie per la trasmissione, non prodotti essenziali. I lavoratori in fabbrica dotati di una mascherina e un solo paio di guanti in lattice
La produzione non si ferma alla Dayco, tre sedi in Abruzzo e circa cinquecento lavoratori che ogni giorno sono attivi nella produzione di cinghie di trasmissione per automobili. I sindacati, da giorni ormai, si appellano a ogni istituzione possibile per chiedere la chiusura degli stabilimenti e l’attivazione della cassa integrazione ordinaria, ma sulla loro strada hanno trovato la netta opposizione sia dell’azienda sia di Confindustria. L’ultimo incontro in video, ieri pomeriggio, ha prodotto un nulla di fatto e le linee continueranno a produrre senza fermarsi.
Da dentro uno degli stabilimenti abruzzesi della Dayco, un lavoratore racconta cos’è la quotidianità all’interno di una fabbrica che non produce nulla di essenziale: «Le cinghie si cambiano ogni 100mila chilometri, in alcuni casi addirittura ogni 250mila, i magazzini sono pieni e di macchine in circolazione ce ne sono ben poche. Perché dobbiamo venire tutti i giorni?». Sulle condizioni di sicurezza, la testimonianza pure è eloquente: «Ci hanno dato una mascherina di stoffa con degli elastici che nemmeno si reggono sulle orecchie. Poi abbiamo un paio di guanti di lattice al giorno che non possiamo cambiare perché ci hanno detto di averne pochi: se dobbiamo andare in bagno non possiamo nemmeno toglierli perché poi sarebbero inutilizzabili. Poi, per ogni capannone, hanno messo appena un dispenser di disinfettante da un litro…».
A Teramo, intanto, la prefettura ha diffuso i dati delle fabbriche ancora aperte sul territorio provinciale: su 65 aziende, 57 sono autorizzate ad operare, per un totale di 1.630 lavoratori coinvolti. «Non tutti in realtà stanno lavorando – sostengono le segreterie di Fiom e Fim -, perché ci sono aziende che, in maniera corretta, hanno riattivato solo le linee di produzione legate alla gestione dell’emergenza, fermando gli altri lavoratori con la cassa integrazione. Molte altre, al contrario, stanno approfittando di questa opportunità per tenere attivi interi stabilimenti industriali in cui le produzioni per l’emergenza sono residuali». Molto dipende dalla prefettura, chiamata a chiarire come interpretare il decreto, ma a regnare è la confusione. «Abbiamo chiesto più volte alla prefettura di intervenire su comparti e aziende in cui si registra una lettura ed una pratica troppo estensiva delle norme – dicono ancora i sindacati -, ma non sono arrivate comunicazioni né sulle aziende che hanno proseguito l’attività, né sulle argomentazioni che possano giustificare quella prosecuzione. Così come non abbiamo riscontro sulle azioni di controllo e prevenzione della sicurezza che si stanno svolgendo nel territorio». A preoccupare ci sono anche tante ditte non sindacalizzate: in provincia di Teramo, negli ultimi anni, si è registrata una grande crescita di aziende del comparto tecnologico in cui i sindacati non sono mai riusciti letteralmente a mettere piede.
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