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Gli oggetti ingombranti

Gli oggetti ingombranti

Musei Il Moma di New York chiude le sue storiche gallerie dedicate ai designer e agli architetti

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 20 aprile 2016

Quando diciamo Moma esprimiamo il concetto di «museo». Non ci sono altri Moma, è uno e unico così come hanno pensato nel 1929 «the daring ladies» Abby Aldrich Rockfeller, Lillie P. Bliss, Mary Quinn Sullivan, quando lo fondarono.
Il suo primo direttore Alfred Barr Jr consacrò il museo alle arti, in particolare al modernismo europeo e all’architettura. Sotto la sua guida due giovani, lo storico Henry Russel Hitchcock e l’architetto Philip Johnson curano la mostra Modern Architecture: International exhibition (1932), dove per la prima volta il modernismo europeo venne esposto oltreoceano. Ma il museo è ricordato anche per il dipartimento di fotografia fondato da Edward Steichen, curatore della celebre rassegna The Family of man (1955). A lui successe John Szarkosky e fu il promotore della grande fotografia americana, da Walker Evans a Stephen Shore.

Quando si parla di Moma non accade come per il Solomon Guggenheim che si finisce per pensare al capolavoro di Frank Lloyd Wright, ma viene in mente l’archivio fatto di disegni, fotografie, plastici di architetture, film, quadri, oggetti di design. Il Moma è, infatti, un archivio infinito dove perdere i sensi, fattore che pare interessare poco la governance del museo che ha annunciato la chiusura delle gallerie espositive dedicate all’architettura e al design.

La motivazione ufficiale riportata da quotidiani e blog online come The Architect’s Newspaper, diretto da Bill Menking, è aprire il museo alle arti senza distinzione: un progetto che sarebbe anche condivisibile se ci fosse una parità tra pittura, scultura, architettura e design. La vera necessità, in seguito all’ampliamento di Diller e Scofidio+Renfro, è invece quella di amalgamare tutto in una condizione di incertezza anche per le scelte dei nuovi curatori del dipartimento architettura, Gadanho e Stierli.
«L’architettura – scrive Menking – d’ora in poi, vista la sua importanza (circa trentamila modelli, disegni dei progetti, oggetti di design tra i quali la Frankfurt Kitchen) come collezione all’interno del museo, dovrà guadagnarsi spazio con le altre raccolte, generalmente più forti e alle quali viene data molta visibilità».

La suddivisione in stanze tematiche del museo consente una migliore lettura delle collezioni e non impedisce di creare dei display multidisciplinari: le argomentazioni del Moma appaiono alquanto deboli. In questa sorta di minestrone di generi diversi, rinnega parte della sua stessa storia.
D’altronde come stupirsi quando lo stesso Moma ha acquisito nel 2011 l’American Folk Art Museum, realizzato nel 2001 da Williams e Tsien che è stato chiuso e inglobato nel nuovo, distruggendo l’architettura preesistente?

Oggi i musei sono alla ricerca di pubblico e anche se il Moma non ha queste necessità, si vogliono aumentare sempre più i profitti, con maggiori servizi che non c’entrano nulla con il museo (caffetterie, bookshop, ristoranti). Inoltre con lo sviluppo massivo delle mostre blockbuster, non solo in America, il grande pubblico viene drogato con gli Impressionisti e Picasso, determinando, da parte di chi gestisce le istituzioni museali, la crescita di una società sempre più superficiale e tendenzialmente ignorante, senza nessuna capacità di visione critica.
Quello che emerge, come nella recente polemica alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma per la rimozione dell’opera di Alfredo Pirri, è l’incapacità dei burocrati-gestori-curatori-storici a convivere con l’esistente. Incapacità che nel caso newyorchese riguarda, purtroppo, anche gli architetti Diller e Scofidio che, supportati dallo staff del museo, attuano una confusa idea museografica, nel ripensare concettualmente uno spazio che funziona bene da quasi ottant’anni.

Poi se qualcuno volesse reperire un catalogo ragionato delle collezioni del Moma, oppure un catalogo delle esposizioni recenti, non troverà nulla. Tutto è delegato all’online: certo i libri non generano profitti come il mercato immobiliare.

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