All’uscita de Il complotto contro l’America, uno dei suoi tardi romanzi più belli, nel 2004, Philip Roth aveva rifiutato l’idea che il libro fosse un’allegoria (erano gli anni di Bush jr.). Infatti, raccontò in un paio di interviste che, durante il processo della scrittura, lo aveva affrontato meno come il racconto di un’immaginaria storia alternativa (alla The Man in the High Castle, di Philip K. Dick) che come un libro di memorie.

Certo, memorie diverse da quello che era successo veramente, ma allo stesso tempo radicate nella sua infanzia – la voce narrante del romanzo è infatti quella di Philip, un bambino di dieci anni che vive con la sua famiglia a Weequahic, il quartiere ebraico di Newark (New Jersey) dove Roth è cresciuto con la sua famiglia. Herman, Bess e Sandy, i nomi del padre, della madre e del fratello del protagonista del libro sono gli stessi di quelli dello scrittore.

DAL 2016 A OGGI, il romanzo di Roth – in cui Charles Lindbergh, un inesperto, carismatico eroe popolare con tendenze autoritarie e simpatie naziste, sconfigge Franklin Roosevelt alle presidenziali del 1940 – ha assunto il sapore di una profezia. E la miniserie di sei puntate, in onda su Hbo (in estate su Sky) a partire da lunedì, sposa in pieno la dimensione allegorica da cui Roth prendeva le distanze, stabilendo un filo rosso molto chiaro tra la storia alternativa di un’America governata dal biondo eroe della traversata transatlantica e quella del palazzinaro miliardario di Queens.

Lo showrunner David Simon filtra attraverso la lente del realismo che contraddistingue le sue serie migliori, come The Deuce e The Wire, la scrittura modernista di Roth; attenua le sue iperboli e semplifica il suo gioco delle identità e dei riferimenti. Se non fosse per il senso di minaccia che si impadronisce quasi subito della trama, la famiglia Levin – il padre assicuratore (Morgan Spector), la madre casalinga (Zoe Kazan), il figlio maggiore Sandy (Caleb Malis) e quello piccolo Philip (Azhy Robertson) – potrebbe essere uscita dalle pagine di un romanzo di Isaac Singer. Come la zia Evelyn (Winona Ryder), zitella, insicura e arrampicatrice sociale, la vecchia nonna e l’untuoso rabbino con l’accento del sud, Lionel Benglesdorf (John Turturro). Simon trasporta la soggettiva dell’io narrante di Roth in un’oggettiva, articolata tra i diversi personaggi.

Nel primo episodio, ambientato durante la corsa alla presidenza nel giugno del 1940, Lindbergh è ancora una figura opaca, l’aura di una celebrity, che dal «tarmac» degli aeroporti dove – come una presenza dal cielo – si materializza qua e là per il paese, professa il credo dell’ «America first», promette di «riconquistare il Paese» e ha un solo messaggio elettorale: quello della pace e della prosperità economica, garantite da saldi contratti commerciali con la Germania di Hitler, sostenuti dall’aristocrazia industriale a stelle e strisce, in testa a tutti il magnate dell’automobile Henry Ford.

Rooseveltiano convinto, Herman passa le serate ad ascoltare alla radio i discorsi di Walter Winchell, il columnist newyorkese che qui è la nemesi di Lindbergh, uno dei primi ad anticipare lo spettro dell’antisemitismo che si nasconde dietro alla retorica dell’aviatore che vuole fare il presidente, e di coloro i cui interessi rappresenta.

Più infuocato dello zio, Alvin (Anthony Boyle) prende la strada del Canada dove si arruolerà per combattere contro i tedeschi in Europa. Bess (Kazan è magnifica nel ruolo), il barometro di famiglia, guarda tutto con un mix di preoccupazione e filosofia – mentre Herman e Alvin lottano per in un’America in cui identificarsi, lei comincia a chiedersi se Lindbergh e il suo antisemitismo non siano semplicemente il risultato di un ciclo elettorale ma qualcosa di più profondo – è la domanda che molti si pongono sulla presidenza Trump e sugli orrendi corollari di discriminazioni sociali e razziali che ha comportato.

INTANTO a casa Levin, i primi cambiamenti sono piccoli, ma subdoli – come il programma per mandare ragazzini ebrei a trascorrere l’estate da famiglie agrarie del Midwest, in cui zia Evelyn, sedotta dall’ambizioso Beglesdorf, iscrive Sandy. Presto arriverà l’idea di trapiantare al centro degli States intere famiglie come quella dei Levin, per «integrarle» – anche lì complice il rabbino conciliatore, ospite orgoglioso di un gran ballo per Ribbentrop alla Casa bianca, insieme alla temibile Evelyn. Perché, nel Complotto contro l’America di David Simon, la presidenza Lindbergh non è né un guizzo della fantasia né un’aberrazione, ma una realtà molto possibile. Di cui alcuni aspetti li stiamo già assaporando. Tra le libertà che Simon si prende rispetto al testo di Roth la conclusione dell’ultimo episodio è una delle più agghiaccianti. E un ammonimento.