Gli estranei alla sfida della crisi dell’Occidente divenuto «mondo»
Mappe mutanti «La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies». Torna con una nuova prefazione per Meltemi la sofisticata disamina firmata da Miguel Mellino. Se «nativi», neri, schiavi, subalterni sono stati interni alla costruzione della modernità dall’inizio allora è chiaramente necessario adottare una bussola critica diversa. Non si propone un semplice ribaltamento della realtà, ma una più complicata insistenza sulla sua riconfigurazione da parte di altri corpi e storie, altre voci e culture
Mappe mutanti «La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies». Torna con una nuova prefazione per Meltemi la sofisticata disamina firmata da Miguel Mellino. Se «nativi», neri, schiavi, subalterni sono stati interni alla costruzione della modernità dall’inizio allora è chiaramente necessario adottare una bussola critica diversa. Non si propone un semplice ribaltamento della realtà, ma una più complicata insistenza sulla sua riconfigurazione da parte di altri corpi e storie, altre voci e culture
La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies di Miguel Mellino è stato recentemente ripubblicato dal Meltemi (pp. 210, euro 18) proponendo un incontro sistematico con gli studi postcoloniali, introducendo temi chiave e valutandone criticamente le sue problematiche. Pubblicato per la prima volta nel 2005, questo ricco, sofisticato e incisivo volume sottolinea con notevole lungimiranza e chiarezza la posta in gioco politica e filosofica all’interno delle coordinate planetarie del lavoro critico in corso. Pur essendo sempre attento alle condizioni e alle iniziative locali in Italia e in Europa, le questioni poste da Miguel Mellino ci spingono ben oltre le preoccupazioni provinciali delle sociologie nazionali, delle storiografie occidentali, o delle loro scienze politiche e filosofiche e del loro mantenimento di frontiere disciplinari.
CIÒ CHE QUESTO LIBRO registra in modo decisivo, ulteriormente enfatizzato in una nuova Prefazione, è la necessità di una radicale ricollocazione delle premesse storiche e filosofiche. Nel suo mondializzare la nostra eredità coloniale come hybris costitutiva della modernità, Mellino ci invita a muoverci in un nuovo spazio critico, per abbracciare i requisiti di un altro ordine epistemico.
Oggi, far valere gli studi postcoloniali nell’accademia italiana ed europea potrebbe apparire meno imperativo. Essa è stata apparentemente adottata e si è diffusa ben oltre la sua incubazione negli studi letterari per incidere su gran parte del pensiero e delle pratiche culturali contemporanee: dai programmi universitari all’arte moderna, dalle iniziative antirazziste al femminismo. Eppure, come nota l’autore, il taglio critico può essere rapidamente smussato, la novità intellettuale assorbita per essere riprodotta senza intoppi nei corridoi del potere accademico e nelle accreditate istituzioni della cultura: da Harvard alla prima pagina del Guardian, dal temperato multiculturalismo alle politiche di integrazione. Per insistere sull’urgenza critica che attraversa il volume, cosa succede se la critica postcoloniale traccia e registra ciò che precisamente non può essere assimilato all’ordine presente?
In altre parole, cosa significa se la violenta economia politica del capitale che rende essenziale le interfacce del colonialismo e del razzismo centrali e costitutive del suo ordine, non può essere ridotta alla nostra rappresentazione politica e filosofica? E se qualcosa esiste, persiste e resiste oltre la cattura in un certo ragionamento che continua a confermare e ospitare l’Occidente mentre rende il mondo per gran parte del resto dei suoi abitanti (umani e non) un sito di nuda sopravvivenza?
Nel registrare e rispondere alla violenza strutturale di questa discrepanza sta secondo l’autore e chi scrive la sfida critica degli studi postcoloniali. Si opera un taglio sul corpo delle presunzioni occidentali. Queste vengono rese vulnerabili alle domande che non hanno autorizzato né sono in grado di recepire.
L’INCAPACITÀ del mondo politico e intellettuale di rispondere a questa sfida è sicuramente più evidenziata oggi nel corpo criminalizzato e ripudiato del migrante moderno. Il mondo bianco ed egemonico guarda altrove. Ma non può sfuggire a questa resa dei conti con il suo passato; cioè con la responsabilità occidentale per la formazione del mondo moderno e le sue conseguenze contemporanee. La politica è risentita ed evita la riparazione e il risarcimento. La filosofia ha poco da dire al di là di un sardonico disconoscimento degli studi postcoloniali come studi compassionevoli.
IL PENSIERO continua con un’ironia fuori luogo e una dialettica della banalità a insistere darwinianamente sulla superiorità dell’universalità della filosofia occidentale (vedi Maurizio Ferraris, Post-Coronial Studies: «non dobbiamo salvare il pianeta solamente noi stessi e il nostro habitat, ogni altro animale lo farebbe»). Mentre gli uomini si agitano e annaspano nel buio, solo Donatella Di Cesare in Stranieri residenti sembra disposta a impegnarsi con questi limiti e le loro conseguenze filosofiche e critiche.
Perché evochiamo l’autorità di questi linguaggi? Proprio perché, come dice Miguel Mellino, il postcoloniale è un «orizzonte storico e teorico di riflessione per la costruzione di un nuovo soggetto politico globale». Una prospettiva più filosofica e critica di questa è difficile da concepire oggi. Smantellando la costituzione coloniale del presente, Mellino ci conduce attraverso le scienze sociali e la loro filosofia del ragionamento in un impegno dettagliato e agonistico con l’eredità critica che ha reso l’Occidente il mondo. Egli espone la violenza epistemica che rende la storia dell’Occidente contemporaneamente unica e universale.
QUESTO non è un programma di alterità assoluta che propone un semplice ribaltamento del mondo, ma piuttosto una più complicata insistenza sul suo attraversamento e riconfigurazione da parte di altri corpi e storie, altre voci e culture. Se questi elementi apparentemente «estranei» sono stati infatti interni – come «nativi», neri, colonizzati, schiavi, subalterni – alla costruzione della modernità fin dalla sua inaugurazione planetaria secoli fa, allora è chiaramente necessario adottare una bussola critica diversa.
Quello che è in gioco qui non sono le pretese di estendere la nostra visione per arrivare a una storia globale; piuttosto, è la produzione di coordinati locali pertinenti che riprendono e recitano le storie locali e nazionali e le loro formazioni in circuiti planetarie che sono irriducibili a verdetti e preoccupazioni campanilistiche. Quindi, riportare a casa il mondo coloniale non significa riempire le lacune della contabilità storica del presente per produrre un quadro più completo ed esaustivo: ciò sarebbe solo un’ulteriore estensione della colonialità del potere-sapere esistente.
PIUTTOSTO, questo importante libro ci chiede di sfidare l’attuale inquadramento della modernità. Esso ci chiede di riportare dentro i nostri linguaggi, critici e quotidiani, il riconoscimento dei rapporti di potere ineguali che assicurano la distanza tra centro e periferia sostenuta dalle gerarchie razziali, dal sessismo e da un ordine patriarcale, dalla brutale estrazione di risorse e vite che costituiscono l’economia politica del presente, e la loro composita centralità nelle nostre vite. Questo è il lungo addio. Un congedo impossibile ma necessario, mentre nelle nostre orecchie risuona l’esortazione di Frantz Fanon: «Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo. Sono secoli che l’Europa ha arrestato la progressione degli altri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che in nome d’una pretesa “avventura spirituale” soffoca la quasi totalità dell’umanità».
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