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Gli esploratori di selve e città

Gli esploratori di selve e cittàUn frame dal video di Regina Parra, «Capitão do Mato», 2016

Mostre «Il coltello nella carne»: al Pac di Milano, trenta artisti provano a raccontare il Brasile tra passato e presente. Una rassegna a cura di Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 21 luglio 2018

Il coltello nella carne è il titolo di una pièce censuratissima del drammaturgo Plinio Marcos, che andò in scena per la prima volta nel 1967, in piena dittatura, a San Paolo (la stessa città che ora sta scandando i motori per presentare a settembre la 33/ma edizione della Biennale improntata alle goethiane Affinità elettive dal curatore Gabriel Pérez-Barreiro), e tornò visibile solo tredici anni dopo.
Racconta con crudeltà la vita dei bassifondi brasiliani dove una prostituta, un gay e un gigolò si affrontano insultandosi per questioni di soldi. Il riscatto sociale è una chimera e i cliché accomodati sono banditi.

È a quella visione senza infingimenti, il «velo squarciato» di un Brasile non solo disponibile ma anche violento (e, in molti casi, violentato) che si richiama la mostra inauguratasi al Pac di Milano (a cura di Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo, fino al 9 settembre) prendendo in prestito il titolo dell’opera teatrale per chiamare a raccolta trenta artisti – di differenti generazioni – e per tentare una mappatura di un territorio sterminato, politicamente oggi assai incerto e al suo interno attraversato da enormi disuguaglianze.
Proprio questa smisurata scala sociale che getta i più miserabili sotto il gradino della dignità umana è al centro della bellissima installazione di Jonathas de Andrade (ma anche nei film metafore dei conflitti razziali nel nordest) Educação para adultos del 2010 che nasce dai manifesti degli anni Settanta preparati dal pedagogo Paulo Freire. A Freire il governo di João Goulart aveva affidato una campagna nazionale di alfabetizzazione, credendo nel suo metodo: la formazione di una coscienza come parte prima per il risveglio del sottoproletariato. Ma la dittatura interruppe quell’utopia e esiliò il docente rivoluzionario. La madre di Jonathas, però, utilizzò quei cartelli nella sua scuola tra il decennio degli Ottanta e dei Novanta e così l’artista se li ritrovò, anni dopo, fra le mani.

Veduta delle installazioni di Jonathas de Andrade e Daniel De Paula al Pac. Foto Vulcano /Nico Covre

De Andrade, però, non ha replicato quell’esperienza educativa senza intervenire, il suo non è un omaggio nostalgico a un «altro Brasile possibile». Ha trasformato quell’intuizione in un’opera riattualizzandola, inserendo nuove associazioni fra parole e immagini attraverso il coinvolgimento, in particolare, della comunità della lavandaie e di altre donne analfabete di Recife. Il suo è un continuo andirivieni nella storia per acquisire consapevolezza, una immersione cronologica in epoche passate che con i loro tentacoli arrivano fino all’oggi. «Con l’arte – afferma l’autore – posso permettermi più libertà e interpretare più figure tutte insieme: posso essere un pedagogo, un ricercatore, un fuggitivo, un estradato, anche un malinconico». Come quando in una installazione (che arrivò anche alla Biennale di Lione nel 2013) ripercorse tutte le tappe della lavorazione del «bonbon negro», la celebre caramella brasiliana di zucchero di canna che affonda le sue radici nel sudore versato nelle piantagioni e nella lunga esperienza della schiavitù nera.

Intorno al colonialismo e al passato recente del Brasile lavora anche Regina Parra (1981, San Paolo) con il suo video Capitão do Mato del 2016. L’artista racconta la storia dell’uccello delatore, quel Lipaugus vociferans che lancia striduli versi nella foresta amazzonica al semplice muoversi di un arbusto, avvertendo i suoi consimili di presenze estranee e dunque potenzialmente pericolose. Grazie a questa sua capacità naturale, l’animale ebbe in dote il triste compito di «tradire» gli schiavi fuggiaschi: i padroni seguivano la sua traccia sonora alla ricerca dei loro lavoratori in c erca di libertà, riconducendoli in catene nelle piantagioni dopo punizioni e frustate. Il punto di vista di Parra però opera una traslazione: non vediamo l’uccello, ma il suo corrispettivo umano, un indigeno che ha imparato a imitare il suo suono e che testimonia la sua presenza tra la vegetazione come atto di resistenza. Ed è proprio la sfida, l’indocilità programmata il fil rouge di questa mostra milanese. Maria Thereza Alves, da sempre impegnata intorno a tematiche che indagano tra gli interstizi dell’eredità coloniale, partendo spesso dalla terra e dai suoi prodotti.

Con l’infilata di disegni a parete che riproducono un frutto, dal titolo This is not an apricot, Alves mette i sensi del visitatore in allerta. Presenta quel frutto riconsegnandolo al suo nome latino, diversificandolo dalla «marmellata» visiva che rende ogni albicocca uguale all’altra anche se di diversa specie. Un’installazione concettuale nata in un mercato di Manaus dove il venditore non conosceva l’origine della sua merce, avendo smarrito il dna di quella sua stessa appartenenza culturale. Lei è la medesima artista che ha seguito le rotte dei semi (Seed of Change) trasportati sotto le suole di viaggiatori, migranti, nei cargo tra le casse di merci, studiando la loro possibile ibridazione su territori altri e gli innesti in luoghi non autoctoni. In This is not an apricot recupera anche una classificazione botanica di due naturalisti bavaresi che ai primi dell’Ottocento non si persero d’animo e si misero a viaggiare in lungo e largo per il Brasile dandosi alla classificazione di flora e fauna locale.

Sceglie invece la stratificazione geologica Daniel De Paula, con la sua installazione impressionante che ordina – in una geometria impeccabile – i carotaggi e i sondaggi per le perforazioni nel sottosuolo per sondare le fondamenta di opere pubbliche nello stato di san Paolo. Quasi un mosaico – composto per somiglianza di forme e colori – che sembra un’alfabeto solido di reperti, lasciando immaginare una storia archeologica tutta da riscrivere e che racconta oggi l’espansione vertiginosa degli spazi urbani.
La rassegna al Pac si chiude su un muro, oltre il quale il visitatore non può andare e si trova costretto a tornare indietro. Non uno qualunque, un muro d’oro che riflette luci, ombre e illusioni. Lo ha costruito Runo Lagorsino, artista svedese-argentino che vive a cavallo tra Malmö e san Paolo. È la metafora del Nuovo Mondo, di quell’Eldorado desiderato, sognato e spesso stuprato senza scrupoli da esploratori e avventurieri incerca di fortuna. Ma stavolta il passaggio è sbarrato: nessuno va oltre il confine.

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