Visioni

Gli eroi cinici e malinconici di una generazione che sperimentava la realtà

Gli eroi cinici e malinconici di una generazione che sperimentava la realtà

Fumetto Perfomer e genio fanciullo, Andrea Pazienza inventa una corporeità a uso delle adolescenze inquiete.Tra controcultura, disillusione dei giovani, il ’77, a trent'anni dalla scomparsa una narrazione ancora attuale

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 3 giugno 2018

Paz ha attraversato i cieli della mia adolescenza e quando ho avuto modo di frequentarlo il suo tratto veloce come un’asteroide in caduta libera era diventato la lingua franca di una generazione. Abita ora il mio immaginario, nel quale ha lasciato tracce indelebili con i suoi pennarelli , e credo stia godendo nell’ultima utopia del secolo scorso, il pianeta dell’Enfarte. Una seconda natura regolata da un potlach permanente, dove le tribù evergreen degli anni’80 composte di creature in costante mutazione obbediscono ancora ai suoi script anfetaminici e si muovono al ritmo dettato dell’andirivieni delle sue matite. Finiamo per assomigliarci tutti nel ricordo del suo ricordo passato. È come se Andrea ci avesse disegnato per sempre quasi fossimo suoi aneddoti.

 

Vorrei però vederlo terminare una tavola autobiografica, visto che disseminò tanti coccodrilli per se stesso tra le pagine dei suoi fumetti, e allora ci si accorgerebbe che lo spazio rimasto è pochissimo intorno alla sua leggenda. Pazienza ha vissuto per eccesso di generosità e tutte le prospettive inedite attraverso le quali riflettere sul suo lavoro le esaurì di fatto durante la sua esistenza fantasmagorica . Lui resta l’immenso Paz, un brand, la rock star del fumetto italiano nello splendore dei 20 anni . Era ed è fuori dalle norme. Consegnandolo al cinema, alla tv, al teatro e alla musica, tanti amici hanno tentato di completare il quadro, interrotto da quella sua morte più volte annunciata con l’amore e una maggiore consapevolezza. Penso ai film (come Paz di Renato De Maria) o agli spettacoli teatrali (come quello su Pompeo di Stefano Benni), agli album e ai tanti saggi a Pazienza dedicati. Da ultimo lo splendido Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco di Stefano Cristante (mimesis), niente di più preciso e pertinente sulle molteplici implicazioni narrative nell’arte di Paz.

 

Andrea Pazienza rimane un genio fanciullo caro ad ogni sensibilità romantica, continuerà a sfuggire ad ogni classificazione e per questo conserverà per sempre la piena maturità ed un tocco sublime. A chi non lo ha letto, consiglio di leggerlo e di farlo per intero – c’è tutta un’estate davanti – come quando ci si attacca ai romanzi di 500 pagine. Di abbandonarsi al suo grande senso del ritmo: Pentothal, Pompeo, l’incompiuto Astarte e il resto.
Ho la fortuna di averlo sentito leggere e visto lavorare, ma l’ho anche accompagnato più di una volta nei suoi sbattimenti, nei viatici a volte dolorosi di cui conservo ancora il ricordo di incazzature e colpi al cuore. Ho ascoltato le sue confidenze, quelle delle amicizie comuni ma tutto è di fatto lì, nelle sue storie piene d’amore, droga, cattiveria, energia e tantissima arte.

 

Conservo la sensazione di una corporeità dolce, narcisistica ed esuberante. Paz è stato più o meno consapelvomente uno dei nostri più grandi performers. L’idea è che abbia prodotto qualcosa di più di ciò che conosciamo, non solo libri a fumetti ma l’ invenzione di una corporeità alternativa reale. Guardate le sue figure intente a correre, mangiare, svegliarsi o scopare: è tutto un manuale di prossemica sensuale ad uso delle adolescenze inquiete e ad uso dei nuovi rappers. Sembrano gli story-boards delle inquadrature sbilenche di un instant poetry o di un blogger. Una narrativa proiettata sul presente, sulla miriade di nuovi likers.

 

Lui, l’Andrea Pazienza quello vero è chiuso in una armatura come quelle medievali da lui amate. Per chi lo ha conosciuto è più che l ’icona pop arrivata ad un largo pubblico, è riuscito a non diventare il santino di un momento aureo di una città come Bologna, probabilmente perché da pugliese e non da auto-proclamato « terrone » coltivava la sua distanza. Certo è una delle sue immagini devozionali più forti con Roberto ( Freak) Antoni, Francesca Alinovi o Piervittorio Tondelli: una di quelle persone che sono diventate veri talismani. Bologna città santa della creatività giovanile, l’ abbiamo abbandonata in tanti ed in fretta, forse non era il paese dei Tarahumara così caro ad Artaud. Andrea è però il nostro Peyotl, la sostanza psicotropa che ci fa riaffiorare da un passato lontano e si rioffre, con lo statuto di un classico ridisegnando il nostro sguardo.

 

Il mondo da lui raccontato sarà per sempre un regalo. Già aveva i ritmi ed i feed sincopati del formato di Instagram e già forniva formati che inglobassero il reale. Andrea aveva lavorato ai fianchi il suo quotidiano a colpi di post e di self (ie) in una grammatica che ci fa pensare che nulla in fondo sia successo nella creazione di immagini, nei trent’anni che ci separano dalla sua morte. Se non che siamo precipitati in qualche sua profezia. È la difficile realtà del nostro Paese a riportare Paz costantemente a galla, l’impossibilità di pacificazione di generazioni diverse che si estende oltre i confini temporali di quegli anni . C’è nelle sue tavole la memoria viva della contestazione ma anche della partecipazione. È come se il Novecento fosse chiuso ma alcune ferite bruciassero oggi con la stessa intensità.

 

 

 

La capacità satirica di Pazienza è un tatuaggio sulla pelle della società italiana, ben aldilà delle operazioni editoriali che ne imbalsamano la leggenda. La globalizzazione ha certamente cambiato il mondo ma non la nostra condizione antropologica. Andrea aveva cominciato davvero presto a descrivere la controcultura, la nuove precarietà, l’insofferenza giovanile e gli obiettivi generazionali disillusi che erano e sono sotto gli occhi. Chissà cosa avrebbe pensato di questo destino… Quel «prima pagare poi …» diventa un ritornello, un tormentone generazionale. La maestria e la fruibilità del segno resta uno dei racconti possibili, che accomuna artisti, writer di oggi nel suo segno di una resa invincibile. Rivederlo come un’ unica assolvenza, realista, più aderente ai fatti di un vecchio tg, più preciso dei testi della vostra canzone preferita, del gruppo di chi vi aveva fatto ballare , correre o piangere, non rileva della nostalgia. Pazienza è ancora di stretta attualità, in un mondo che veste e riveste come i suoi personaggi tutte le possibili maschere. Le ha raccontate tutte basta cercarle nei suoi fumetti. Quel numero illimitato di ministri, faccendieri, presidenti, poliziotti, studenti,prostitute fattoni, pusher. Storie o se preferite sturiellet. È l’artista più completo di una generazione che si è costruita con la mitologia dello scontro frontale. Con il reale, però ha perso più di una partita. Sicuramente quella con il mercato, ma con la consapevolezza che la sconfitta l’avrebbe consegnato al futuro sotto la diversa luce dell’epica.

 

C’era una simmetria che ora diventa maggiormente visibile con gli artisti americani degli stessi anni; Jean Michel Basquiat o Keith Haring ai loro esordi aspiravano probabilmente solo ad un destino di cartoonist superstar. Andrea aspirava invece ad essere un altro tipo di artista, con un altra relazione con l’arte . Le corna e lo sguardo strabico che aggiunse ad una foto in bianco e nero di Francesca Alinovi accompagnarono la sua partecipazione alla mostra alla Galleria d’arte Moderna di Bologna, assieme alle tavole di Giallo Scolastico. Nella registrazione di frequenze è la mostra che traghettò buona parte del nuovo fumetto italiano verso il museo e fuori dalla sola dimensione della carta stampata.

 

Lo scarabocchio sul ritratto di Francesca è li a ricordare un suo gesto dissacratorio che è nel contempo una delle sue migliore chiose. Troppo italiano dissero in tanti, ma della stagione pulp e tarantiniana (da Quentin Tarantino), che colonizzarono il gusto giovanile negli anni ’90, le sue tavole furono molto più che un teaser. Tutto il lavoro di decostruzione dell’universo Disney con quel suo Pippo che sembra uno sballato o le sue crocifissioni hard non temono il confronto con l’ overdose o il gore losangelino, così come quelle del neo gothic hollywoodiano. Per chi ha un poco di dimestichezza con l’arte contemporane e conosce alcuni protagonisti le figure disneyane di Paul McCarthy, o il fumetto di Raymond Pettibon avevano in simultanea altri nani e cenerentole psichedeliche da questa parte dell’ oceano. Così i «Natural Born Killers» o i cattivi di tutti i tipi hanno avuto in Zanardi un buon numero di incarnazioni del bene e del male assoluto, là dove la penna e la matita antropologiche di Pazienza ci hanno guidato.

 

Pazienza ha traghettato il gusto italiano attraverso quello che Baudrillard o Zizek chiamano l’inferno del reale. Possedeva qualche ingrediente in più, rispetto ad altri della sua generazione, per divenire leggenda occorre infatti il rischio della sperimentazione nell’utilizzo delle tecniche e la capacità di sintonizzarsi con il registro alto della società spettacolare. Pensandoci oggi non lo percepisco come il cannibale picassiano, o il provocatore post-dadaista. Vedo piuttosto un Ensor, contemporaneo con il piacere nel descrivere la moltitudine nel grottesco, un cinismo d’istinto spesso carico di malinconia.

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