Gli aventiniani: Renzi tira dritto
Camera Tutti via dall’aula. La sinistra Pd in dissenso dal premier, ma alla fine obbedisce
Camera Tutti via dall’aula. La sinistra Pd in dissenso dal premier, ma alla fine obbedisce
Alle cinque del pomeriggio nella sala stampa di Montecitorio si schierano i capofila delle opposizioni sciamate via dall’aula. Il colpo d’occhio è un po’ forte. Il vendoliano Arturo Scotto siede accanto a Renato Brunetta, fin qui alleato di Renzi sulle riforme e ormai personalmente incontenibile da quando Forza Italia ha (presuntamente) rotto il patto del Nazareno. Completano il quadro l’ex forzista Barbara Saltamartini, il leghista Massimiliano Fedriga e il fratello d’Italia Fabio Rampelli; il quale, dati i trascorsi missini, si affretta a spiegare «che il nostro non è un Aventino, ma il tentativo di presidiare il gioco democratico». La foto della strana cinquina fa subito il giro dei siti. Nel Pd le battute sono taglienti: «Adesso capisco perché Scotto era contro il Patto del Nazareno: lo voleva fare lui» sfotticchia il presidente del Pd Matteo Orfini. «Come si fa ad accusare Renzi di sostenere l’austerity e farlo accanto a Brunetta, presunto autore della lettera della Bce 2011?», se la ride il ministro Andrea Orlando.
Nella foto degli aventiniani mancano i 5 stelle: sono della partita, ma hanno convocato una conferenza stampa tutta per loro. Questo strano arcobaleno potrebbe essere il primo nucleo del fronte del no al referendum sulle riforme, se e quando arriverà. Ma da qui all’autunno 2016 c’è tempo. Per ora sono tutti imbufaliti contro la forzatura del calendario d’aula contro la seduta fiume voluta dalla maggioranza per portare a casa entro sabato la riforma costituzionale. «Aberrante» (Brunetta), «è in atto un sequestro del parlamento» (Rampelli) «Renzi tratta la canera come un soprammobile» (Scotto). Il leghista è una punta e quindi già attacca il nuovo inquilino del Colle: «L’arbitro non fischia il fallo, inizia male». Il presidente Mattarella riceverà le opposizioni, che si sono appellate a lui, ma a partire da martedì e per gruppi separati.
Ad aver fatto saltare i nervi a tutte le opposizioni è stata l’apparizione di Renzi, alle due della notte di giovedì alla camera, «non per assumersi la responsabilità di quello che stava succedendo ma per aizzare i suoi ad andare avanti», racconta Filiberto Zaratti (Sel). Dopo una nottata e un’alba concitata (5 stelle che battevano sui banchi e scandivano «o-ne-stà»), una rissa tra una fila di deputati Pd e una fila di Sel (finisce con un espulso per parte, Minnucci e Airaudo), una proposta di dialogo del Pd ritenuta finta («prima fermino i lavori»), adesso le opposizioni escono dall’aula rinunciando al residuo tempo disponibile per la presentazione degli emendamenti e all’ostruzionismo che avrebbe comunque fatto slittare l’approvazione della riforma oltre la data di oggi, quella fortissimamente voluta da Renzi. C’è chi suggerisce che fra gli azzurri abbiano fatto speciale effetto le minacce del premier di andare al voto in caso di stallo della camera. Vere o bluff che siano, impressionano tutto l’arco parlamentare.
Nel Pd la minoranza cerca di rallentare la corsa della riforma, tanto più che l’approvazione finale è prevista per i primi di marzo. Gianni Cuperlo in aula chiede «una pausa tecnica finalizzata a consentire incontri e tentativi per la ricostruzione di un clima costituente» e parla di «ferita» di un esame delle riforme «con metà dell’emiciclo vuota». In risposta arriva il tweet di Renzi. È una sfida alle opposizioni, anche interne: «La riforma sarà sottoposta a referendum. Vedremo se la gente starà con noi o con il comitato del no guidato da Brunetta, Salvini e Grillo». E anche le minoranze Pd dovranno scegliere da che parte stare. L’aula prosegue in un clima surreale, il Pd in solitudine deve assicurare il numero legale. Fassina e Civati smettono di partecipare al voto.
In serata Renzi riunisce i deputati, il malumore della sinistra esplode: «Ci vorebbe il modello Mattarella», tuona Bersani, bisogna fare «ogni sforzo» per far tornare le opposizioni in aula, «il governo non può pretendere di avere il dominio delle riforme». Fuori campo, da Lecce, si fa sentire la voce di Massimo D’Alema: «Non si cambia la Costituzione in mezzo alle risse. Non c’è nessun motivo di urgenza, oltretutto entrerà in vigore nel 2018».
Ma Renzi tira dritto, con la testa è già oltre il sì alla riforma: «L’immagine di Scotto, Brunetta e Salvini è un’immagine che devono spiegare loro, la foto del comitato del no al referendum. Andiamo avanti con la seduta fiume». La sinistra Pd non è d’accordo ma si adegua. È Speranza ad annunciarlo: non va bene «il modo di procedere nell’approvare il testo». Ma in aula assicurerà il numero legale e alla fine voterà (tranne Civati e Fassina). Alfredo D’Attorre ritira tutti i suoi emendamenti, anche se «la scelta delle opposzioni interroga la coscienza». Per Speranza è il metodo-Nazareno «che ci ha portati a questo punto, perché la blindatura extraparlamentare delle riforme e l’accordo esclusivo con Fi, nel momento in cui Berlusconi ha fatto la sua ennesima capriola ci ha lasciati privi di interlocutori nel fronte delle opposizioni. Bisognava prendere atto di questo errore e ripartire su basi nuove, riaprendo un confronto». Analisi lucida. Ma il finale è un «obbedisco».
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