Gli antagonisti della casta
Saggi « Democrazia anno zero» di Pablo Iglesias Turrión per le Edizioni Alegre
Saggi « Democrazia anno zero» di Pablo Iglesias Turrión per le Edizioni Alegre
L’apparenza rischia di ingannare: di fronte a Democrazia anno zero di Pablo Iglesias Turrión (traduzione di Dario Di Nepi, Edizioni Alegre, pp. 192, euro 15) qualcuno potrebbe credere che il leader di Podemos abbia scritto un pamphlet sulla «Spagna che vorrei» ad uso della campagna elettorale per il voto del 20 dicembre. Fortunatamente non è così: il libro – la cui edizione italiana si deve alla cura dei giornalisti Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena – non appartiene a quel genere letterario di dubbio valore a cui spesso si dedicano aspiranti primi ministri. È, invece, un documento prezioso per capire il bagaglio teorico con il quale Iglesias, insieme a un drappello di altri studiosi, ha trasformato in realtà ciò che fino a due anni fa era una semplice intuizione, un’ipotesi di un gruppo di irrequieti intellettuali di sinistra, quasi tutti sotto i 40 anni. Se l’edizione originale (di cui ha scritto sul manifesto del 14/2 Beppe Caccia) aveva una prefazione di Alexis Tsipras, questa è arricchita da un’intervista dei curatori a Maurizio Landini, utile a definire le somiglianze e (soprattutto) le differenze fra la Coalizione sociale promossa dal segretario Fiom (per il momento archiviata in attesa di tempi migliori) e il giovane partito spagnolo.
Ciò che Iglesias chiama un «insieme di appunti a fine divulgativo», scritto in buona misura prima che il «fenomeno-Podemos» esplodesse, è un’opera di pedagogia politica pensata innanzitutto per il variegato arcipelago di attivisti nati e cresciuti con il movimento degli indignados. Un testo concepito per rafforzare ideologicamente, ma senza gergo da iniziati, quella moltitudine che si era ritrovata la prima volta il 15 maggio 2011 alla madrilena Puerta del Sol, diventando in breve tempo il nuovo protagonista collettivo della politica spagnola ed europea. Un attore non previsto dal copione del potere, che sconvolse gli analisti per la sua vastità e capacità di creare consenso attorno a sé. Ma che rischiava di abbandonare la scena, nell’inevitabile riflusso, con un amaro senso di sconfitta, se non avesse generato qualche tangibile segno di rottura del quadro politico-sociale esistente. Come, ad esempio, la nascita e l’affermazione di Podemos.
Se il gruppo di Iglesias ha potuto, fino ad ora, far saltare gli schemi dell’asfittico bipartitismo spagnolo è innanzitutto grazie a un’idea della politica – e della lotta politica – figlia della grande tradizione del realismo, da Machiavelli a Lenin, che insegna che «le ragioni senza la forza non sono niente». Quel realismo che impone a chiunque voglia davvero perseguire una politica radicale di rifuggire tanto dagli estremismi infantili dei «movimentisti» che urlano slogan rivoluzionari e si consumano in inconcludenti e interminabili assemblee, quanto dalle malattie senili che affliggono i partitini di sinistra preoccupati solo da «cospirazioni, liste, patti, chiacchiere da corridoio e chiamate telefoniche che allontanano i militanti dalla società», e che si sentono «a proprio agio soltanto in minoranza».
È il realismo che ha guidato Syriza ai suoi successi elettorali, dovuti non al fatto che i greci siano improvvisamente diventati di sinistra radicale, ma alla capacità della formazione di Tsipras di «diventare un’alternativa reale per governare il paese». Che è ciò che si propone Podemos, e che spiega il suo rifiuto di collocarsi lungo l’asse destra-sinistra come forza «a sinistra del Psoe».
Vincere le elezioni, tuttavia, «non significa, neanche lontanamente prendere il potere»: Iglesias lo sa perfettamente, cosciente del fatto che il terreno di gioco è quello scelto dagli avversari. La lezione di Gramsci è viva: per l’autore bisogna costruire egemonia nella società, sapendo elaborare e poi imporre, attraverso un uso sapiente dei media (un elemento-chiave), il proprio linguaggio al servizio di una lettura autonoma del mondo. E bisogna legarsi a movimenti, intellettuali, stringere alleanze (quelle utili) con altre forze, senza l’arroganza di chi si sente autosufficiente – ciò che, se mai ce ne fosse ancora bisogno, mostra una delle differenze di fondo fra Podemos e Movimento 5 Stelle.
Esempi molto chiari di cosa significhi avere un’interpretazione autonoma della realtà sono offerti dai tre capitoli del libro dedicati rispettivamente alla storia spagnola dalla Restaurazione borbonica (1875) all’avvento dell’attuale sistema (1978), alla crisi economica, e alla «crisi di regime» della Spagna di oggi. La parte storica (quasi un libro nel libro) serve a mostrare ai destinatari originari del volume, i giovani militanti «indignati», che la lotta per la democrazia ha «un cuore antico», e che sapersi eredi di stagioni anche molto lontane aiuta a costruire la necessaria coscienza di sé – a condizione, aggiungiamo noi, che non si assuma il modo di considerare il passato che Nietzsche definiva «antiquario», che paralizza l’azione. La successiva analisi della crisi economica è una sintesi efficace delle modalità e dei risultati della lotta di classe combattuta dai ricchi organizzati nel «partito transnazionale di Wall Street», mentre le pagine sulla crisi istituzionale spagnola mostrano il valore pienamente politico del tema della corruzione, che l’autore affronta per denunciare l’intreccio fra politica ed economia grazie al quale le oligarchie possono «governare senza presentarsi alle elezioni». Almeno finché qualcuno, pienamente cosciente delle difficoltà dell’impresa, non decide di sfidarle sul serio.
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