«Il nostro era un complesso di case con il cancello, custodito all’ingresso da boschetti di rose e cespugli di ibiscus. In direzione dei cespugli crescevano un paio di siepi verdi parallele, punteggiate fittamente di rosa da minuscoli fiori di ixora a forma di stella. I venditori se ne stavano schierati lungo la strada adiacente alle siepi, insieme agli alberi fitti di frutta: alberi di arance, guave, anacardi e manghi. Ai margini delle strade, dove i cespugli si stagliavano alti come una foresta, c’erano ancora più alberi: alti iroko, pini sibilanti, e una manciata di palme da olio e da cocco. Nella stagione dell’harmattan arrivavano i venti del Sahara che sollevavano la polvere e intorbidivano l’aria. Nella stagione piovosa le piogge strappavano la natura selvaggia alla polvere e tutto riacquistava chiarezza e forma».

COSÌ CHINELO OKPARANTA ci introduce in apertura de Sotto gli alberi di Udala (edizioni e/o, pp. 387, euro 19, traduzione di Tiziana Lo Porto) alla Nigeria degli anni Sessanta, in un contesto apparentemente quieto, esotico e lussureggiante, ma che viene travolto nel 1967 dallo scoppio di una sanguinosa guerra civile. Quella che poi passò alla storia come Guerra del Biafra (la regione igbo secessionista, a sud-est del paese, si dichiarò indipendente dal resto della nazione con questo nome, prima di venire ridotta alla fame e riannessa alla repubblica federale tre anni dopo) travolge per sempre il destino di Ijeoma, giovane protagonista del romanzo, allora adolescente, che nel conflitto perde suo padre, la vita «di prima» e l’innocenza dei suoi dodici anni.

Abbandonata dalla madre, Ijeoma scopre l’amore e la sessualità con una coetanea di etnia hausa, infrangendo un tabù tuttora innominabile (il 7 gennaio 2014 il presidente Goodluck Jonathan firmò un disegno di legge che criminalizza le relazioni tra persone dello stesso sesso e i suoi sostenitori, rendendole punibili fino a quattordici anni di carcere o con la morte per lapidazione nel nord musulmano), e una netta quanto devastante differenziazione etnico-religiosa (fomentata già in epoca coloniale dalla politica del divide et impera adottata dal governo britannico e ancor oggi pervasiva in una nazione così vasta, dove ai quattro gruppi etnici principali si affiancano altre centinaia di etnie maggioritarie e minoritarie, con lingue, credo religiosi e tradizioni specifiche, ostacolando grandemente l’insorgenza di una vera e pacifica democrazia, come rimarcato dalle elezioni presidenziali appena svolte).

SE LA MEMORIA di questa guerra infarcisce gli scritti di Chinua Achebe, Flora Nwapa, Wole Soyinka e Ken Saro-Wiwa, è onnipresente anche nelle successive generazioni, da Ben Okri a Chris Abani, passando per Biyi Bandele, Uzodinma Iweala, Chimamanda Ngozi Adichie e Lesley Nneka Arimah (per citare i più noti e rappresentativi, tutti tradotti in Italia), che negli intercorsi cinquant’anni hanno attinto senza soluzione di continuità all’avvenimento più traumatico della storia nazionale per esplorarne le implicazioni individuali e collettive, universalizzandole e intersecandovi altre tematiche, alla ricerca di modi nuovi di resistenza politica, trasformazione sociale, redenzione dal trauma e alfine anche innovazione creativa nelle più disparate direzioni (come ha fatto in maniera avanguardistica nelle arti visive il «Gruppo di artisti di Nsukka», collettivo non istituzionalizzato di studenti e insegnanti presso l’Università della Nigeria).

IN QUESTA AUTOREVOLE tradizione, Okparanta, già nota per la raccolta di racconti La felicità è come l’acqua con le sue fresche e combattive eroine, si inserisce aggiungendo un tassello importante alla narrazione nazionale, dando voce ai cittadini Lgbtq e reclamando uno spazio di legittima appartenenza nella storia di un paese sempre più centrale nelle dinamiche continentali, economicamente in espansione e artisticamente prolifico, eppur così turbolento, contraddittorio e travagliato.