Gli allevamenti intensivi che uccidono il salmone selvatico
Qual è il prezzo di un ecosistema? Qual è il suo valore?» È una domanda che non ha risposta, perché un ecosistema ha un valore incommensurabile, la sua perdita è […]
Qual è il prezzo di un ecosistema? Qual è il suo valore?» È una domanda che non ha risposta, perché un ecosistema ha un valore incommensurabile, la sua perdita è […]
Qual è il prezzo di un ecosistema? Qual è il suo valore?» È una domanda che non ha risposta, perché un ecosistema ha un valore incommensurabile, la sua perdita è un danno irreparabile. Eppure è quello che l’uomo sta provocando, nell’era dell’iperproduzione globalizzata. A porre quella domanda è un attivista che si batte per la salvaguardia del salmone selvatico, che in Europa è seriamente minacciato da una delle acquaculture più impattanti del pianeta: quelle di salmone, appunto.
Il salmone è il re del mercato del pesce. In Europa la Norvegia è il principale produttore ed esportatore di salmone d’allevamento, un settore che copre un terzo del fatturato dell’intero paese e che è in continua espansione; sulle tavole europee nel 2018 sono arrivate 700 mila tonnellate di salmone norvegese. Nel frattempo negli ultimi 40 anni, la presenza nei mari del salmone dell’Atlantico è scesa da dieci a tre milioni. Esiste una correlazione fra questi due fenomeni? In parte sì, e il documentario ArtIfishal lo spiega molto bene.
Si sente spesso affermare che gli allevamenti intensivi di salmone non esistono, che i salmoni vengono allevati solo in mare aperto. È vero, ma in gabbie a rete dove vengono stipati con una densità paragonabile a «5/6 pesci in una vasca da bagno», racconta un altro attivista nel documentario. Sono poi nutriti con mangime artificiale addizionato di antibiotici, gettato in acque intorbidite dal vomito degli animali stessi a causa dell’alimentazione troppo grassa e intrisa di antiparassitari. Acque con cui vengono a contatto anche i pochi salmoni selvaggi rimasti, poiché le gabbie sono aperte e in mare. Gli effetti sul salmone selvaggio e su altri pesci come la trota di mare sono devastanti: malformazioni, ulcere, alterazioni ormonali, morte. Come in Norvegia, anche in Scozia e Irlanda l’allevamento del salmone è gestito in questo modo ed è nelle mani di colossi industriali che esercitano un potere simile a quello dei signori del petrolio.
Il documentario nasce all’interno di una campagna europea volta non solo a sensibilizzare l’opinione pubblica sui danni degli allevamenti industriali dei salmoni, ma anche a fermarne l’espansione. Non essendo la Norvegia un membro Ue, le compagnie nazionali stanno adottando una strategia senza scrupoli: aprono uffici in Paesi comunitari del nord Europa – ad esempio l’Islanda – per poi chiedere ai governi locali la licenza per allevare. Attualmente in Islanda il parlamento sta per votare una legge che potrebbe consentire alle principali aziende di acquacoltura del mondo di allevare grandi quantità di salmone in gabbie aperte. «I gruppi locali stanno lottando affinché ciò non avvenga ma hanno bisogno del resto dell’Europa», dice la campagna, che prevede anche in una petizione per chiedere il divieto agli allevamenti di salmoni in reti aperte. Le firme verranno consegnate al parlamento islandese prima del voto cruciale e consegnate anche ai decisori in Norvegia, Scozia e Irlanda.
Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia e produttore del documentario, dice: «Una vita senza natura selvaggia e una vita che non contempla la presenza di queste grandi specie iconiche è una vita impoverita. Se perdiamo tutte le specie selvatiche, perdiamo noi stessi».
La prima proiezione italiana di Artifishal si è tenuta a Milano lo scorso aprile al Base. L’incasso dei biglietti sarà interamente devoluto in beneficenza. Artifishal è stato inoltre proiettato negli store Patagonia, in occasione di festival cinematografici, eventi della comunità e nei teatri. Le informazioni sulla campagna, la petizione e il programma delle proiezioni si trovano alla pagina https://eu.patagonia.com/it/it/artifishal.html.
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