Visioni

Gli adolescenti sono sempre molto «indie»

Gli adolescenti sono sempre  molto «indie»

Cinema «Quel fantastico peggior anno della mia vita», esordio di Alfonso Gomez-Rejon, tratto dal romanzo omonimo di Jesse Andrew, premiato allo scorso Sundance Festival

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 10 dicembre 2015

La tua compagna Rachel ha la leucemia. Sua madre pensa che le farebbe bene se tu la frequentassi. Quindi per piacere chiamala e passate un po’ di tempo insieme». É con questa frase che, più o meno, comincia Quel fantastico  peggior anno della mia vita (titolo originale: Me Earl and the Dying Girl), leziosa versione indie del melodramma teen alla Colpa delle stelle, raccontata in voce fuori campo dal protagonista, Greg, un ragazzino timido e introverso costretto dalla mamma a telefonare a una compagna di scuola con i mesi contati.
Cancro, cinefilia, esistenzialismo da liceo, gli ormai immancabili genitori hippie (che sembrano ma non sono distratti), una mamma single alcolica, il professore di storia alternativo e il classico miglior amico afroamericano che vive nei quartieri poveri della città, il film dell’esordiente Alfonso Gomez-Rejon, tratto dal romanzo omonimo di Jesse Andrew, vira in commedia la premessa drammatica con un risultato più inautentico che originale.

 

Non perché la leucemia non può far ridere, ma perché il film è scritto fino all’asfissia, troppo impreziosito da una scenografia tutta colori pastello e intriso da scoppiare di ammiccamenti e autoreferenzialità – a partire dal fatto che Greg e Earl, il migliore amico di sopra, sono co-autori di un intero scaffale di film, ispirati e intitolati (con le distorsioni tipiche, come fanno i porno) a partire da grandi classici del cinema mondiale. I due girano con una Bolex e il simbolo della loro casa di produzione è un bersaglio pieno di frecce, come quello di Powell e Pressburger.
Prevedibilmente, dopo l’iniziale forzatura, Greg (Thomas Mann) e Rachel (Olivia Cooke) cominciano a trovarsi vicendevolmente simpatici. Lui chiuso e insicuro, lei malata e saggia. Il loro un rapporto fatto di pomeriggi passati insieme per le strade di Pittsburgh, nella stanza gialla gialla di Rachel e, quando le cose si mettono per il peggio, al capezzale di un ospedale. Ma, come un selfie, il tutto è filtrato dalle parole di Greg, «aiutate» da cartelli/capitoli che anticipano quello che sta per succedere e, in alcuni casi, anche da commenti musicali a base di colonne sonore celebri (una visita al quartiere malfamato in cui sta Earl avviene sulle note di Il bello il brutto e il cattivo…).

 

Il tutto così fitto, controllato, che il film manca d’aria, e d’emozione vera. Vincitore, il gennaio scorso, del gran premio della giuria e del premio del pubblico al Sundance Film Festival, Il peggior anno della mia vita, oggi rappresenta la retroguardia del cinema indipendente Usa per cui tanto ha fatto la manifestazione di Robert Redford.

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