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Gli acrobati di Calder

Gli acrobati di CalderUn leone con il domatore di Alexander Calder

Arte In mostra a Merano le immagini di Ugo Mulas che raccontano (in bianco e nero) il circo dell'artista americano, papà dei «mobiles»

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 8 febbraio 2014

Alexander Calder si era spinto sulla via della leggerezza inseguendo i personaggi filiformi di un maestro come Joan Mirò. Lo aveva incontrato a Parigi, dove – dalla natìa America (Pennsylvania) si era stabilito fin dal 1926. Lì, nello studio di Rue Daguerre, il giovane Calder aveva cominciato a sperimentare ogni tipo di materiale, affascinato soprattutto dalla fragilità delle cose, dalla loro disperata lotta contro la forza di gravità: raccoglieva ovunque rimasugli di fil di ferro corde, carta, latta, stoffa, «scarti» utili per volare verso il cielo. Proprio in omaggio a questa tensione verso la lievità, inventò quell’opera straordinaria che poi non è altro che un concetrato di sogni portatili, itineranti. «Mirò – scrisse Calder – un giorno venne nel mio atelier mentre stavo cercando di far funzionare il circo. Credo gli piacesse molto. Qualche anno più tardi, nel 1932, dopo averlo visto a casa sua, in Spagna, mi confessò che lui rimaneva incantato di fronte ai ’pezzetti di carta’. Si trattava di pezzetti di carta bianca, forati e con l’aggiunta di piccoli pesi che svolazzavano lungo esili fili di rame, arrotolati, piegati in diversi modi e che io agitavo affinché scendano volteggiando come colombe sulle spalle di una bella dama di circo, sfavillante di gioielli».

L’attrazione fatale per il mondo del tendone a strisce era scoppiata qualche anno prima quando Calder aveva lavorato come free lance per la National Police Gazzette. Uno dei suoi servizi fu starsene per due settimane al circo Barnum & Baley per produrre schizzi e illustrazioni di quell’universo a parte. Andò a riprendere anche le bestie selvagge dello zoo. Fu lo start creativo, la rivelazione, il bagaglio con cui partire alla volta della Francia. Per una fabbrica di giocattoli – la Toddler Toys – prese a dar vita a un circo in miniatura: «C’erano un elefante e un’asina che si potevano sedere sulle zampe e alcuni clown sospesi a una scala o a una sbarra che si reggevano su un piede o una mano. Li avevo animati con lo spago, così da creare una traiettoria che li portasse dritti dritti sul dorso dell’elefante…». Siamo nei dintorni della prima apparizione del suo lillipuziano chapiteau con i suoi domatori e gli incerti equilibristi sul filo. A lanciare l’impresa fu, come ricorda Calder, «un serbo che sosteneva di essere nel mondo dei commerci. Mi disse che potevo guadagnarmi da vivere costruendo giocattoli meccanici…Quando poi sparì, io ormai ero dentro al circo. Il mio primo acrobata fu un saltatore, gambe di filo d’acciaio, testa con un pezzo di turacciolo e capelli dipinti a guazzo».

Non fu un’attività da poco la sua: il circo di Alexander Calder, nel giro di una manciata di anni, divenne una delle attrazioni più amate dalla Parigi intellettuale. Cocteau, Léger, Mirò, Mondrian, Pevsner, Le Corbusier, il grande circense Paul Fratellini: sono questi i nomi del pubblico «domestico», che andava ad assistere agli spettacoli messi su dall’artista stesso, un regista-demiurgo che faceva tutto: tirava sul sipario, azionava i congegni per dar eseguire i numeri, mimava le voci, mentre sua moglie Louise azionava il fonografo per far partire le musiche di scena. Nel suo circo, insieme alle danzatrici del ventre e alle cavallerizze in tutù, c’era anche un assaggio del Wild West di Buffalo Bill, con tanto di cowboy che acchiappava al lazo il toro, galoppando nella pista rotonda. Non senza una buona dose di ironia, non tutto andava sempre per il verso giusto: il «direttore» Calder faceva uscire dall’arena anche qualche acrobata in barella, dopo brutte cadute e fallimenti nella loro disciplina.

L’ultima rappresentazione di quel mini-circo venne data presso la galleria Maeght, nel 1954. Poi, l’artista continuò ad azionare quella macchina dell’illusione per pochi amici nella sua fattoria di Saché, che aveva comprato nel 1953.

Alla fine degli anni Settanta, l’artista montò definitivamente il suo fragile circo al museo Whitney di New York. Ora è lì e a causa della scomparsa del suo creatore e della sua deperibilità, non è più itinerante. Per fortuna, quel gioco teatrale coinvolgente venne immortalato in due film: quello di Jean Painlevé del 1953 e il poetico corto di 19 minuti del portoghese Carlos Vilardebó. Lì, al cospetto di un Calder che gioca a fare il pagliaccio, rinasce tutta la magia di quell’irripetibile circo.

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