Glauco Mauri, il verbo del palcoscenico
Glauco Mauri al teatro Argentina di Roma in "Macbeth" (1972) – foto Getty Images
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Glauco Mauri, il verbo del palcoscenico

Lutti Morto a 94 anni il grande attore marchigiano. Dalla classicità alle avanguardie, gli sceneggiati tv
Pubblicato 14 giorni faEdizione del 1 ottobre 2024

Il sipario è calato su un altro degli attori importanti del nostro teatro, Glauco Mauri. È morto nei giorni scorsi, alla vigilia del suo novantaquattresimo compleanno, quando ancora sarebbe dovuto andare in scena, da solo, con un suo recital, che avrebbe preso il poco benaugurale titolo, De profundis, in realtà robusto testo che Oscar Wilde aveva scritto a fine ottocento nel carcere di Reading. L’attore è stata una delle presenze fondamentali della scena italiana del secondo 900. Quando, scappato dalle natìe Marche a Roma per poter fare l’attore, seguì un percorso di apprendimento dai maestri più grandi dell’epoca (anche se magari raccontava lui stesso che la spinta iniziale era l’attrazione per il cinema).

CONDIVIDEVA con Luca Ronconi dei grandi ricordi all’Accademia tra Silvio D’Amico e Orazio Costa. Ed ebbe da subito riconoscimento dalla scena teatrale, e dopo qualche anno fu tra i fondatori della mitica «Compagnia dei quattro», che assieme a lui erano Valeria Moriconi, il regista Franco Enriquez e Mario Scaccia. Bravi nei classici riletti con l’occhio della modernità, ma innovatori nel far conoscere al pubblico italiano la nuova scrittura del novecento, a partire da Ionesco che a molti appariva allora in qualche modo «strampalato».

Riscosse successo anche in televisione, sconfiggendo il «pericolo» del primo piano, grazie all’autorevolezza e alla convinzione nell’interpretare i suoi ruoli.

DA QUEGLI ANNI di avanguardie, Mauri era andato acquisendo uno spessore (e importanza e rispetto nell’ambiente) che ne hanno fatto una colonna portante del teatro italiano, passando con naturalezza dalla classicità alle avanguardie. Riscosse successo anche in televisione, sconfiggendo il «pericolo» del primo piano, grazie all’autorevolezza e alla convinzione nell’interpretare i suoi ruoli. Brillante (e spesso godibilmente spiritoso) nelle parti come nelle interviste e nei racconti. Quello rimasto più celebre è quello delle «lacrime di Eleonora Duse», sorta di apologo tra De Amicis e lo strillo giornalistico, che lui amava raccontare. Le lacrime sarebbero state quelle della grande diva di inizio novecento, che interpretava la signora Alving negli Spettri di Ibsen, e ogni sera appoggiava il suo occhio in lacrime sulla spalla del figlio, un allora giovane Memo Benassi, che sarebbe divenuto poi uno dei mattatori della scena italiana tra le due guerre. E proprio Benassi quella giacchetta l’aveva poi regalata a Mauri, in una sorta di investitura ereditaria da primo attore nazionale. Una storia che è una delle mitologie del teatro, ma che Mauri raccontava con malcelato orgoglio.

D’altra parte lui ha continuato a diffondere come fosse il verbo, il teatro antico (dai classici greci a quelli europei del sei/settecento), dal teatro di Pirandello a quello più contemporaneo, sempre tra i primi in Italia a portare le nuove scritture, perfino quando potevano suonare inizialmente più ostiche o complesse: memorabile il suo Thomas Bernhard, di cui con la regia di Andrea Baracco, aveva portato in scena il denso, quasi ideale autobiografia, Minetti ritratto di un artista da vecchio, e poi diversi altri titoli. Sapeva di magìa la sua capacità di impossessarsi dei personaggi e porli quasi fossero espressione sua in prima persona. Negli ultimi anni il suo sodalizio teatrale si era stretto con Roberto Sturno, sorta di suo alter ego più giovane in scena. L’anno scorso Sturno è venuto a mancare, ma forte dell’intesa precedente, Mauri aveva lasciato «Mauri-Sturno» quale ragione sociale della compagnia. Quasi che possano ora continuare a riprendersi la vita, almeno quella teatrale, su un celeste palcoscenico.

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