Ci troviamo in un’epoca di mutazione, questo è ormai indubbio. Un cambiamento di paradigma in cui la fruizione frammentaria e ipervelocizzata di contenuti attraverso le immagini ha un ruolo centrale.
Il cortometraggio Glass Life, della regista canadese Sara Cwynar – presentato al festival di Rotterdam lo scorso anno e ora disponibile su Mubi – si fa carico di questi meccanismi in cui siamo immersi, spesso con scarsa consapevolezza. In venti minuti scorrono sullo schermo, con un movimento verticale che ricalca lo scrolling dei device digitali, foto, ritagli e immagini dall’«atelier» di Cwynar – attiva anche nel campo delle arti visive. Due voci, una maschile – quella dell’attore Paul Cooper – e una femminile – presumibilmente quella della regista – si rincorrono e si intrecciano citando brani estratti da autori come Adorno, Benjamin, Camus, Emily Dickinson, Donna Haraway, Luce Irigaray, Audre Lorde, Foucault…. rispetto però ai corti precedenti di Cwynar, che con Rose Gold (2017) e Red Film (2018) aveva vinto due premi sempre a Rotterdam, Glass Life si distanzia un po’ dal film-saggio di debordiana memoria per alcuni elementi: innanzitutto l’introduzione della musica che genera un ritmo più serrato, e poi per una nota malinconica che emerge man mano e che riguarda forse noi tutti nel momento in cui non eludiamo le caratteristiche contemporanee dello stare al mondo – o almeno, in questa parte di mondo.

LA PARTITA è tutta qui: l’enorme mole di informazioni, parole e immagini in continua circolazione, sono un bene o un male per la vita umana? Mentre passiamo rapidamente da video di proteste a scarpe in saldo, da libri di filosofia ad emoticon, da volti di attrici a quadri antichi, le voci narranti ci ricordano che siamo continuamente spinti all’autosservazione e all’autobrandizzazione, che «l’archiviazione fa si che il sé sembri più ricco e sostanziale anche mentre diventa più labile» e che «un intestino durante un’indigestione non può essere acquistato, solo contemplato». È questo nodo tra corporeità, emozioni e mercato ad essere chiamato in causa in Glass Life, senza però alcuna possibilità o velleità di risoluzione. Le due voci sono infatti come il mormorio ruminante che spesso ci abita, un sovraccarico di input utile solo a generare falsi bisogni che tentiamo di soddisfare acquistando, in una perenne distrazione rispetto a ciò che veramente dovremmo dire e fare.
Finché il tempo non saprà darci risposte, finché non avremo «attraversato il guado», gli accostamenti di Cwynar sono una gioia per gli occhi, le sue tonalità pastello bellissime come la fotografia nel complesso. Fino a quell’ultima immagine dove una mela rossa si scaglia su un cielo finto di carta azzurra – riassunto di quel conflitto tra natura e artefatto non ancora superato, ma anche una domanda sulla bellezza che è, a ben guardare, ciò che ha interessato Cwynar fin dall’inizio.