Giustizia ambientale, i golosi e gli affamati
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Giustizia ambientale, i golosi e gli affamati

L'articolo Gli habitat naturali dei poveri sono presi di mira dallo sfruttamento delle risorse
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 giugno 2022

Èun’immagine che ha fatto la storia. Una foto, scattata dallo spazio, mostra la Terra illuminata dal sole, vortici di nuvole, con oceani e continenti chiaramente visibili. Eccola, l’unica e sola Terra, la casa di tutti noi. L’immagine del pianeta blu, riportata da una spedizione lunare, ha innescato il movimento ambientalista americano e poi mondiale. Venti milioni di americani sono scesi in piazza per la prima Giornata della Terra nel 1970 e, nel 1972, l’immagine era nella copertina del bestseller mondiale Rapporto sui limiti dello sviluppo del Mit e ha ispirato il logo della prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente a Stoccolma. Eppure, la foto distorce la nostra percezione. Non sono visibili persone, culture o società. Ha lanciato la narrazione di numerosi rapporti ambientali in cui noi – l’umanità – siamo di fronte al pianeta. Ma chi siamo noi? Non sorprende che la questione della giustizia non abbia avuto un ruolo negli anni ’70, né l’abisso che separa i paesi del sud da quelli del nord, né i diritti di esistenza delle persone che vivono direttamente della natura. Nella migliore delle ipotesi, ha avuto inizio il discorso della giustizia intergenerazionale sulla falsariga di «Abbiamo solo preso in prestito la Terra dai nostri figli» – che, in retrospettiva, è però stato un colossale fallimento.

Al contrario, il discorso di Indira Gandhi a Stoccolma – in cui ha affermato che la povertà è il più grande inquinatore – risuona ancora oggi. A quel punto è diventato impossibile ignorare il punto dolente della politica ambientale – e con esso la questione della giustizia internazionale: il divario Nord-Sud. Non doveva essere risolto fino all’annuncio degli Obiettivi di sviluppo sostenibile nel 2015, che si applicano a tutte le nazioni; l’idea di aumentare lo sviluppo è stata tranquillamente messa da parte. Al Vertice della Terra a Rio de Janeiro nel 1992, l’ambiente e lo sviluppo erano ancora in contrasto. Il Nord voleva la protezione dell’ambiente, il Sud lo sviluppo.

IL CONFLITTO È STATO disinnescato da un nuovo principio del diritto ambientale internazionale: quello delle responsabilità comuni ma differenziate – l’uovo di Colombo! Secondo questo principio, tutti i paesi sono responsabili del degrado ambientale globale, ma non tutti allo stesso modo. I Paesi sviluppati si sono quindi impegnati a compiere i primi passi, come la riduzione delle emissioni, raccogliendo anche fondi per compensare le perdite nei paesi più poveri. Il tiro alla fune su questo approccio continua ancora oggi, soprattutto nelle conferenze successive alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici. Analoga controversia è in corso nei negoziati per la Convenzione sulla diversità biologica, secondo la quale i benefici derivanti dall’uso delle risorse biogenetiche devono essere equamente condivisi, sia tra le nazioni che all’interno di ciascuna nazione. Per poter decidere la creazione di vaste aree naturali protette, il Sud, con la sua ricca biodiversità, dipende però dalla redistribuzione finanziaria del Nord, che dal canto suo ha già in gran parte distrutto la diversità della vita.

ANCHE LA DEFINIZIONE di sviluppo sostenibile proposta dalla Commissione Brundtland nel 1987 non ha aiutato molto all’epoca. Mentre si enfatizzava la giustizia intergenerazionale, tra generazioni diverse, la giustizia intragenerazionale, tra le persone della stessa generazione, è caduta nel dimenticatoio. Di chi e quali bisogni dovrebbero essere soddisfatti? Lo sviluppo sostenibile dovrebbe soddisfare il bisogno di acqua, terra e sicurezza economica o il desiderio di viaggi aerei e depositi bancari? Dovrebbe soddisfare le esigenze di sopravvivenza o i desideri di lusso? Il divario economico mondiale si rispecchia chiaramente in quello ecologico. L’impronta ecologica aumenta con la ricchezza, e viceversa.

NEL 2019, LA METÀ benestante della popolazione mondiale, ovvero le classi medie e alte del Nord America, Europa, Asia e Medio Oriente, ha causato ben l’88 per cento delle emissioni globali di gas serra, mentre l’altra metà – i poveri – erano responsabili solo del 12 per cento. Una differenza gigantesca. Le attività di consumo e di investimento del 10 per cento più ricco rappresentano da sole poco meno della metà delle emissioni globali, lasciando l’altra metà al restante 90 per cento della popolazione mondiale. In ogni caso, il divario Nord-Sud tra gli Stati è continuato. Con l’ascesa delle economie emergenti, questo divario è diventato evidente anche all’interno delle nazioni.

AL DI FUORI DELLE RELAZIONI diplomatiche, la società civile chiede giustizia ambientale dalla fine degli anni ’70. Ad esempio, le comunità non bianche negli Stati Uniti hanno protestato contro la discriminazione a causa dei livelli di inquinamento più elevati; nel nord dell’India, numerose donne del movimento Chipko hanno abbracciato gli alberi per proteggerli dal disboscamento per fini commerciali. I momenti peggiori sono stati in seguito gli omicidi di Chico Mendes da parte di grandi proprietari terrieri nella regione amazzonica nel 1988 e di Ken Saro-Wiwa in Nigeria per aver resistito alla compagnia petrolifera Shell nel 1995. Gli ambientalisti, soprattutto nel sud del mondo, continuano a vivere pericolosamente: 228 omicidi sono stati registrati nel 2020, molti dei. Quali in Sud America.

MOLTI MOVIMENTI hanno adottato la giustizia ambientale come loro tema di battaglia. Basta prendere La Via Campesina, un’organizzazione fondata nel 1992 che è popolare in 80 paesi tra piccoli proprietari, contadini e pescatori che chiedono sovranità alimentare e un modello agroecologico. O il movimento per i diritti degli animali emerso negli anni ’80 che sostiene il rispetto dei diritti degli animali e rifiuta gli allevamenti intensivi. Infine, il movimento per la giustizia climatica: il suo slogan «System Change not Climate Change» (2007, Conferenza sul clima di Bali) ha fatto luce sulle cause sistemiche della disuguaglianza globale che deriva dal cambiamento climatico – e quindi sull’era industriale moderna, sia sotto un sistema capitalista o socialista. Fridays for Future, Ende Gelände ed Extinction Rebellion sono gli eredi di questo movimento. In precedenza, il Consiglio ecumenico delle Chiese aveva condotto una campagna per la giustizia ambientale negli anni ’90 e la Chiesa cattolica ha seguito l’esempio nel 2015 con l’enciclica Laudato sí. Recentemente, l’iniziativa Just Transition, lanciata dai sindacati, ha condotto una campagna per l’occupazione per la transizione verso un’economia sostenibile.

LA GIUSTIZIA AMBIENTALE ha infine un significato giuridico. Alla nascita, tutti gli esseri umani acquisiscono un diritto fondamentale a vivere su un pianeta ospitale. Questa è l’essenza dei diritti umani. Un terzo della popolazione mondiale dipende dall’accesso diretto alla natura per il proprio sostentamento. Ottiene cibo, vestiario, alloggio, medicine e anche cultura direttamente dalle aree naturali locali. Poiché le savane, le foreste, l’acqua, i terreni agricoli e anche i pesci, gli uccelli o il bestiame sono mezzi essenziali di sussistenza per questi gruppi, il loro diritto di esistere dipende dalla fioritura di questi ecosistemi. La siccità e gli uragani causati dal riscaldamento globale presentano quindi anche una dimensione dei diritti umani, così come lo sfruttamento delle risorse – come la deforestazione e la pesca eccessiva, nonché le 17 mila miniere e 50 mila dighe (alte oltre 15 metri) nel mondo – a beneficio dei cittadini benestanti. Gli habitat naturali dei poveri sono presi di mira dall’economia internazionale delle risorse.

GRAZIE ALLA RETE transnazionale dei popoli indigeni, è stato possibile portare avanti la dichiarazione del 2007 dell’Onu che prometteva loro giustizia sui loro territori. Inoltre, nel 2012 le Nazioni Unite hanno creato il ruolo di Relatore speciale sui diritti umani e l’ambiente che ha portato anche a un successo: a fine 2021 è stato ufficialmente riconosciuto il diritto umano a un ambiente sano. Certo, bisognerà vederne le applicazioni, ma almeno i comportamenti scorretti contro il clima e la biodiversità possono ora essere perseguiti legalmente. L’anno scorso, ad esempio, un tribunale olandese ha ordinato al gigante petrolifero Shell di risarcire gli agricoltori nigeriani che avevano perso la casa e le fattorie a causa di perdite di gasdotti. In questa linea di azioni legali che si stanno accumulando in tutto il mondo si inserisce anche la rivoluzionaria decisione della Corte costituzionale tedesca, secondo la quale il governo tedesco non aveva tenuto sufficientemente conto delle libertà civili delle generazioni future.

PER TORNARE ALL’IMMAGINE del pianeta blu: il suo potere simbolico si realizzerà solo se le persone del globo saranno vincolate da regole di diritto internazionale. Con l’invasione russa dell’Ucraina, c’è da temere che l’ordine mondiale non sarà più governato da una serie di regole multilaterali, per quanto asimmetriche, ma da pochi centri di potere che non rifuggono all’uso della violenza. La legge del più forte avrebbe la precedenza sui quadri giuridici. Questo è di cattivo auspicio per l’unità dell’umanità, il cui simbolo è proprio la foto del pianeta blu.

* Già capo della ricerca al Wuppertal Institut, è autore di numerosi saggi sul tema della sostenibilità

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