Dopo Damien Hirst, Giulio Paolini, Georg Baselitz, Daniele Puppi, Candida Höfer e alcuni altri, ora spetta a Giuseppe Penone confrontarsi con la Galleria Borghese di Roma. Museo celeberrimo, grembo di quella modernità della quale i contemporanei si considerano discendenza, sebbene postuma, e della quale Scipione Borghese ed eredi seppero assicurarsi le icone tra le più incisive. In molti a Roma si chiedono quale sia la necessità di presentare mostre d’arte contemporanea nelle stanze già stipate di suntuosi arredi e di superbe opere del passato per visitare le quali bisogna prenotarsi per tempo e, in mancanza di permessi straordinari, accontentarsi delle due ore concesse per ogni turno.

A voler tracciare una cronologia su un arco temporale relativamente recente, e limitandoci alle arti visive, la commistione tra antico e contemporaneo intesa come presa di coscienza della continuità, non lineare, della Storia, venne sperimentata innanzitutto dagli artisti – Giulio Paolini, in primis, per il quale la storia dell’arte è un fil rouge che si snoda nel tempo e lungo il quale le opere si inanellano in forma di varianti – e poi da alcuni curatori – da Giovanni Carandente, che disseminò le sculture contemporanee nelle antiche vie di Spoleto, all’olandese Rudi Fuchs, che dell’accostamento tra arte antica e contemporanea fece la sua cifra stilistica –, sino a diventare oggi prassi corrente.

Alla Galleria Borghese approdò nel 2002 in occasione del centenario dell’acquisizione della Villa da parte dello Stato italiano e con l’idea di riproporre la commistione di opere antiche e contemporanee che aveva guidato le scelte di Scipione Borghese. Ora che in molti declinano, ognuno a suo modo, il rapporto di continuità tra passato e presente, è bene forse osservare le cose da un punto di vista diverso. Lo suggerisce la stessa direttrice della Galleria Borghese, Francesca Cappelletti, nell’introduzione pubblicata nel catalogo dell’attuale mostra, ricordando, accanto ai valori universali percepiti nel presente, anche, se ho bene inteso, le cesure causate da ogni nuova espressione d’arte.

Gesti universali è il titolo della mostra di Giuseppe Penone. Curata da Francesco Stocchi e aperta fino al 28 maggio, accompagnata da un catalogo (Electa, euro 25.00) corredato dalle foto di Sebastiano Pellion di Persano, che documentano le ventisette opere esposte – una selezione che investe quarant’anni di lavoro e una vasta campionatura dei materiali più usati dall’artista: bronzo, marmo, cuoio, foglie, spine d’acacia, oro, creta, legno – così come ora abitano tre sale della Villa, l’aranciera e il giardino all’italiana prospicente la voliera.

Nel catalogo, Penone, in conversazione con il curatore, ricusa il termine «confronto» e suggerisce quello di «dialogo» per definire l’attitudine con la quale ha scelto le opere da esporre. Con l’intelligenza che contraddistingue il suo argomentare – mai retorico, sempre aderente alla realtà seppure visionario e quindi stupefacente – l’artista, sapientemente sollecitato Stocchi, suggerisce continuità e scarti tra le sue opere e quelle, essenzialmente, di Gian Lorenzo Bernini – che si direbbe sia stato il suo principale, se non esclusivo, interlocutore –, nel solco di alcuni denominatori comuni, che sono, in breve, il rapporto tra l’uomo e la materia che lo circonda, le azioni del tatto e del contatto.

Torna utile, in un momento come l’attuale, gravido di conflitti e prossimo a un assottigliarsi dei beni comuni foriero di ostilità, che l’arte ricordi gli «universali» sulla base dei quali le coscienze possano dialogare. Penone, del resto, più di altri, è autorizzato a utilizzare la categoria di «universale», dal momento che proprio lui con il suo lavoro ha sostenuto la «democratica» parità dell’esistente, ricordando – e in grande anticipo sulle teorie che cercano oggi una via d’uscita dall’antropocene – l’assoluta identità del regno animale, minerale e vegetale. Da quando giovanissimo, nel 1968, all’età di 21 anni, ancora iscritto all’Accademia di Belle Arti di Torino, decise di realizzare un’opera sommando la sua forza a quella dell’albero. Da allora non ha mai cessato di concepire il suo lavoro nei termini di un processo scandito da azioni condotte in assoluta compartecipazione con la materia che gli sta intorno, rilevando «universali» analogie e delineando un’idea di identità fondata sulla capacità di percepire i mutamenti reciproci assunti dai corpi al momento del contatto.

Però, l’occasione ghiotta che la mostra di Penone alla Borghese offre è quella di interrogarsi sulla condizione di noi contemporanei che ammiriamo le opere di Bernini, ma non ne siamo i primi destinatari, mentre lo siamo di quelle di Penone, il quale, sebbene non acclamato quanto Bernini al suo tempo, gode oggi anche lui di grandissima fama. Il ‘paragone’ tra Penone e gli artisti della Villa, sul quale si interroga il bel saggio di Andrea Cortellessa, può anche rilevare qualche tratto peculiare delle nostre persone. Accenneremo ai più elementari, sempre tenendo presente che le «cesure» provocate dalle opere dell’artista contemporaneo sono frutto dei sedimenti della Storia, ma anche, come s’è detto, di sue eccezionali intuizioni.

All’inizio della mostra, l’accesso all’imponente, arioso salone d’ingresso alla Villa – dove il soffitto è sfondato su un unico cielo che accoglie trionfi e virtù di epoche diverse e dove le statue, antiche e moderne, sono garbatamente addossate alle pareti – appare sbarrato da una fila di Alberi, le sculture che Penone realizza a partire dal 1969 scortecciando una trave e facendo riemergere da essa il tronco vegetale. L’interdizione è piaciuta a molti dei visitatori e delle visitatrici della mostra. Un ardimento oppositivo la innerva, ereditato dalle avanguardie che per prime fronteggiarono l’indifferenza dei benpensanti e che Penone, in pieno Sessantotto nella Torino della Fiat, declinò a suo modo, riconvertendo il prodotto industriale della trave – le travi tutte uguali ottenute con il lavoro alienato dell’operaio che con le mani non sa fare più niente – in quello dell’albero che l’ha generata. Ai suoi interlocutori rivolse allora un appello invitandoli a vedere gli alberi contenuti nelle travi, nelle navi, nei tavoli, così come ora nelle consolle della Villa Borghese dove ci aggiriamo del tutto, o quasi del tutto, privi di esperienze legate alla materia e alla sua manipolazione, abituati come siamo a usufruire del già confezionato. Gli alberi che sbarrano, simbolicamente, l’accesso al salone e che si parano di fronte a noi come un bosco di fusti centenari, sono una premonizione o un monito? Forse nessuno dei due, ma un modo diverso, destinato a sensibilità diverse, per esprimere, come accadeva ai loro tempi alle altre opere conservate nella sala, l’ardimento di una tecnica – nel caso degli Alberi l’intaglio – capace di scuotere le coscienze e di sprigionare meraviglia.

Spostiamoci nella sala dove al centro dello spazio è installata la scultura di Gian Lorenzo Bernini ricavata da un blocco di candido marmo di Carrara e raffigurante la metamorfosi di Dafne che nella stretta di Apollo si trasforma in albero di alloro. Per Penone direi che si tratti di un incontro cui era predestinato, quello con un’opera con la quale forse da sempre ha dialogato. La scultura di Bernini si trova ora al centro della sala, ma in origine era addossata a un muro. Troviamo, invece, collocate al muro due opere di Penone. Simili tra loro, entrambe intitolate Respirare l’ombra e fatte di rete metallica, bronzo e foglie di alloro. Ciascuna è un rettangolo alto oltre tre metri, composto da nove rettangoli uguali di misura, sui quali, trattenute da una rete, sono ammassate foglie di alloro, il cui profumo coloro che hanno l’olfatto più sensibile ancora possono percepire. Al centro di queste griglie si staglia un ramo frondoso fuso in bronzo, che si biforca in due opposte direzioni, verso il basso e verso l’alto. Di questo chiasma, la parte che si dirama verso il basso è dorata e in una delle due opere, nel punto in cui il bronzo si converte nell’oro, è innestato il calco in creta del volto dell’artista con il positivo rivolto al salubre manto vegetale.

Nell’epoca di Galileo Galilei e dell’invenzione della scienza moderna, prodigioso era l’artificio, e Bernini, come è noto, seppe condurlo al massimo grado. Nel gruppo dell’Apollo e Dafne, ininterrottamente ammirato dai suoi contemporanei sino a oggi, il solido marmo si trasforma in pelle, capelli, corteccia, foglie, al punto da suggerirne, oltre alla consistenza, persino i colori. Allo scorcio degli anni sessanta del secolo scorso, agli individui che stavano assistendo al drastico assottigliarsi della loro relazione con i processi naturali (il progredire delle tecnologie avrebbe in breve ulteriormente impoverito questo genere di esperienza), l’arte di Penone donò l’autentico. Dalla trave estrasse l’albero senza il quale il legno non esiterebbe, in seguito non concepì altro modo di scolpire se non attraverso la tecnica del calco che garantisce la resa oggettiva – sono calchi di veri rami e foglie i bronzi che compaiono nelle opere esposte alla Borghese –, e le foglie, che nel gruppo di Bernini sono finemente scolpite nel marmo, nell’opera di Penone sono autentiche foglie di alloro.

Tra i tanti, possibili termini di paragone, ne salta agli occhi un altro. Il gruppo di Bernini è la somma di una miriade di superfici dalle forme organiche, tutte diverse, composte dalla più svariata qualità di linee, spezzate, ondulate, ricurve… tese nel loro insieme, come è stato dai molti esegeti sottolineato, a rappresentare l’acme dell’azione, il momento fatidico nel quale si compie un evento unico, eccezionale. Nelle due opere di Penone prevale l’impianto modernista della griglia. Il modulo rettangolare si dispiega nella dinamica della ripetizione che rende le superfici intelligibili a sguardi provenienti da direzioni diverse (fisiche o culturali) e che offre loro persino l’opportunità – come anche la X dei rami suggerisce – di concepire l’immagine capovolta. Qui, nel continuum della natura e delle sue iterazioni, l’individuo si affaccia – testimoniato dal calco del volto dell’artista – con un’azione, quella del respirare, oggettivamente irrinunciabile, comune a tutti e mai oltraggiosa.