Una fotografia di Giuseppe Morandi che ritrae un paisan
Una fotografia di Giuseppe Morandi che ritrae un paisan
Italia

Giuseppe Morandi, voce degli ultimi «paisan»

Addii Allievo di Mario Lodi e Gianni Bosio, negli anni Sessanta, con una cinepresa e una macchina fotografica prestate cominciò a raccogliere le immagini del suo mondo contadino, poi fondò la Lega di Cultura di Piadena. Aveva inventato un cinema «ad altezza d’uomo e di lavoro»
Pubblicato un giorno faEdizione del 17 novembre 2024

Ho conosciuto Giuseppe Morandi all’inizio degli anni ’70 a una riunione dell’Istituto Ernesto De Martino a Milano. Esprimeva idee politiche complesse, visioni e progetti articolati, citava Gramsci – tutto in una lingua a me ignota: il dialetto padano della sua Piadena.

PENSAI: se il suo dialetto è capace di appropriarsi di Gramsci, vuol dire che per chi lo parla Gramsci e quello che rappresenta non è ideologia astratta che viene dall’alto, ma carne e sangue, risorsa di uso quotidiano. Come dovrebbe essere, e come è stato per tutta la sua vita.

Era del 1936; è morto il 14 novembre 2024. Stava male fin dal tempo del Covid, si è consumato e spento un po’ per volta, senza soffrire troppo. Era meno conosciuto, forse, ma la sua perdita non è meno grave e meno dolorosa della perdita di Giovanna Marini: è un mondo, il nostro, che perde le sue voci, i suoi occhi, la sua memoria, i suoi artisti. Persone care, insostituibili.

GIUSEPPE MORANDI non è mai stato un intellettuale di professione: è stato un’intelligenza, un’immaginazione, un organizzatore di cultura e un rivoluzionario concreto. Era allievo di due grandi maestri, Mario Lodi e Gianni Bosio – allievo anche riottoso e combattivo, mai subalterno.

Su suggerimento di Mario Lodi, a inizio anni ’60, con una macchina da presa e una macchina fotografica prestate, cominciò a raccogliere le immagini del mondo contadino a cui apparteneva, dagli ultimi «paisan» protagonisti delle lotte del 1948 agli immigrati che ne hanno preso il posto, dalle «pumatere» raccoglitrici di pomodori ai ragazzi delle discoteche. Come sempre, la povertà dei mezzi impone di scatenare la creatività; e Morandi inventa un cinema «ad altezza d’uomo e di lavoro» e una «fotografia contadina» che non hanno letteralmente uguali.

I SUOI FILM CASALINGHI – montaggio in camera in presa diretta, interminabili campi sequenza – diventano autentica avanguardia e grazie a Marco Müller arriveranno ai festival del cinema di Locarno e di Venezia (tardivamente, nel 2014, gli è stata assegnata per il suo lavoro dal premio Solinas Documentario la medaglia del Presidente della Repubblica). Ha scritto Giovanna Marini: nelle fotografie di Morandi le «pumatere» o i bergamini «ti fissano e sembra che ti dicano ‘Guardami un po’, sì sono proprio io e sono proprio così, bé?!’ E si capisce che Giuseppe Morandi ti sta dicendo: ‘Questa è la mia gente, e io me li porto dentro così come sono, e io sono come loro e ne sono fiero’».

Giuseppe Morandi
Giuseppe Morandi

NEL 1967, su suggerimento di Gianni Bosio, insieme all’inseparabile meraviglioso compagno Gianfranco «Micio» Azzali e altri, tutti braccianti e operai, fonda la Lega di Cultura di Piadena.

Mi ha raccontato una volta che il padre del Micio, Pierino Azzali, si cavò di tasca diecimila lire per pagare il notaio. Era una grossa somma per un bracciante in quegli anni, e lui scelse di investirla in cultura. Quando il notaio si accorse che Pierino – analfabeta per violenza di classe – non sapeva fare la firma sull’atto costitutivo, chiese, «Ma come può un analfabeta presiedere una Lega di Cultura?». E Giuseppe: «Ma questa è un’altra cultura».

Da allora, Morandi e i suoi compagni hanno fatto di Piadena una capitale dell’altra cultura.

Per trent’anni, sull’aia e nel bosco della casa contadina del «Micio» si sono radunati ogni anno centinaia (una volta eravamo duemila) di compagni venuti da tutta Italia e da mezza Europa a cantare, mangiare, suonare, parlare, stare insieme, e ricaricare le forze per un altro anno di resistenza. E l’anima, la vita di quei giorni erano sempre il «Micio», i compagni della Lega, e lui.

IN UN SUO FILM PIÙ RECENTE, El Calderon (1999), la macchina da presa percorre i luoghi svuotati di una cascina abbandonata, mentre nella colonna sonora risuonano le voci registrate quando era abitata e in attività. Sembrano fantasmi che tornano senza corpo in uno spazio senza più vita. Nonostante tutto, c’è molta morte nell’opera di Morandi. Quando facemmo una rassegna dei suoi film a Roma, nel 2014, qualcuno si sentì offeso perché erano tutti su uccisioni di animali – il maiale, l’oca, il cavallo… Avremmo dovuto aiutarli a capire che Morandi stava parlando di una cultura che ogni giorno vive facendo i conti con la presenza della morte.

E lui lo sentiva. Il suo primo film è Morire d’estate; il suo libro di racconti si intitola La proprietaria del morto. Ho sempre immaginato, anche nei giorni di festa, di percepire nel suo sguardo una traccia di tristezza, di conoscenza del dolore, che rendeva ancora più preziosa la sua passione per la vita.

L’HO VISTO PER L’ULTIMA VOLTA due settimane fa. Andammo a trovarlo col Micio e col suo amico Peter Kammerer. Era consumato ma non spento. Gli dicemmo che stavamo andando a un incontro su Gianni Bosio, e dal suo letto d’ospedale, in quella lingua con cui l’avevo conosciuto, subito disse: «Vegni anca mì».

Sono le ultime parole che gli ho sentito dire. Ovviamente, non poteva venire. Ma adesso lo portiamo con noi.

I funerali si terranno fomenica 17 novembre alle 10, a Pontirolo, nella sede della Lega di Cultura.

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