Giuseppe Marcenaro e quella religione laica della letteratura
RITRATTI Il critico e scrittore genovese è morto ieri a 82 anni. Aveva collaborato con diversi inserti tra cui «Alias». Tra le sue opere, la monografia scandita per parole-chiave dedicata a Montale
La gentilezza, un’eleganza naturale e generosamente prodigata con chiunque entrasse in contatto con lui erano i tratti elettivi dello scrittore Giuseppe Marcenaro, mancato ieri dopo una lunga malattia nella sua Genova dove era nato il 30 marzo del 1942. Benché avesse anche scritto testi poetici, si fosse a lungo occupato di arti figurative e in anni lontani avesse diretto una rivista ligure di rango nazionale, Pietre (fra il ’75 e il 1984), il suo nome è essenzialmente legato alla critica letteraria, esercitata per decenni su testate di orientamento liberaldemocratico, da Il Secolo XIX a La Stampa, da L’Espresso a Il Foglio e Il Venerdì di Repubblica, non escluso da ultimo il nostro supplemento domenicale, Alias, che sentiva uno spazio di libertà e di necessaria riflessione o, anzi, di resistenza al senso comune del neoliberalismo, il quale ammette la letteratura solo se veicolo di evasione e intrattenimento.
Antipode era stata la sua formazione che, viceversa, lo aveva educato ad una laica religione della letteratura come sinonimo di integrale testimonianza dell’umano e dunque simbolo di umana verità (parola temeraria a pronunciarsi da cui Giuseppe generalmente si asteneva): suo maestro era stato infatti Carlo Bo, da cui pure lo distanziava l’aperta professione di cattolicesimo, ma prima di ogni altro lo aveva guidato una donna di straordinaria cultura e vivacità intellettuale, Lucia Morpurgo Rodocanachi (la négresse – così voleva un tempo il crudo lessico editoriale – traduttrice sottotraccia dall’inglese di opere firmate in chiaro da Vittorini o Montale) alla cui memoria Giuseppe dedicò un libro bellissimo, certamente il più suo, Un’amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi (Camunia 1991).
SUPERFLUO AGGIUNGERE come al centro della sua costellazione ci fosse il poeta di Ossi di seppia, studiato con indefettibile fedeltà e oggetto di una monografia scandita per parole-chiave (Eugenio Montale, Bruno Mondadori 1999). Qui il dato più caratteristico, in perfetta controtendenza, della sua saggistica è l’avere avvalorato, nel secolo di Proust, la lezione del nemico Sainte-Beuve come testimonia per esempio la curatela dello Chateaubriand (Aragno 2015) di quel grande critico ritenuto il fondatore del cosiddetto metodo biografico. E tuttavia per Marcenaro la biografia di un autore non era certo la tranche de vie da cui dedurre meccanicamente una poetica ma, semmai, era l’alveo da cui provenivano, per disseminazione, frammenti e tracce da interrogare alla stregua di segni cabalistici e da rinviare al corpo della scrittura stessa in un cortocircuito che lasciava intravedere come il critico genovese fosse un vecchio lettore di Walter Benjamin.
Tutto ciò faceva da connettivo a volumi saggistici che riunivano altrettanti percorsi biobibliografici, testi sui quali di recente alcuni editori, specie Il Saggiatore e Aragno, hanno avuto il merito di puntare pur in presenza di titolazioni che l’editoria mainstream trovava scoraggianti: Wunderkammer (’16), Daguerréotype (’16), Scarti (’17), Dissipazioni (’18), Passaporti (’19) fino al testamentario, vera dichiarazione d’amore per la letteratura, Perversioni inconfessabili, comparso da Italo Svevo edizioni nel 2020.
E va menzionata almeno in calce la sua attività di organizzatore di mostre artistiche e documentarie, sempre in collaborazione con Pietro Boragina, e qui basterebbe menzionare la memorabile Italie: il sogno di Stendhal (Genova, Palazzo Spinola Gambaro, 2000).
IN REALTÀ ogni sua pagina era più o meno direttamente generata da un articolo di giornale (giusta la lezione di un altro maestro, grande e controverso giornalista, Giovanni Ansaldo) cui Marcenero attendeva con alacrità curando sia lo spessore del dettato sia lo stile di una scrittura presto divenuta inconfondibile quanto la figura di Giuseppe, un uomo che ha saputo onorare il giornalismo e la letteratura come fossero una cosa sola: il sigaro, il papillon, il suo riso irrefrenabile davanti agli spettacoli della quotidiana bêtise ne ufficializzavano per così dire la fisionomia, quella di un uomo in tutto testimone del suo tempo ma di un tempo, come amava ricordare, che non era affatto il suo.
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