Nella lettera del 21 novembre 1996 a Jean-Claude Romand, assassino di moglie, figli e genitori, riportata ne L’avversario, Emmanuel Carrère scrive: «il problema per me non è reperire informazioni, ma trovare una mia collocazione rispetto alla sua storia… perciò non mi resta che raccontare in prima persona… quello che della sua storia mi riguarda e produce un’eco nella mia». Simile distanza prospettica, che tiene salda la distinzione tra io e mondo, ha rappresentato sul finire del XX secolo uno sviluppo della postura del new journalism anglosassone, offrendo un modello assai frequentato dal non-fiction novel degli anni a venire.

IL NUCLEO DI PROBLEMI enunciato da Carrère è come esploso in Yara. Il true crime. (Bompiani, pp. 416, euro 20), di Giuseppe Genna. Yara Gambirasio scompare il 26 novembre 2010 dal centro sportivo di Brembate di sopra, un paese vicino a Bergamo. Tre mesi dopo è rinvenuta cadavere in un campo incolto nel comune di Chignolo, a soli quindici minuti di auto da Brembate. Da questo lembo di terra buio, in cui l’edilizia, cantiere dopo cantiere, ha sottratto spazio ad una campagna sulla quale spira un vento freddo, prende le mosse un io narrante instabile, che racconta la scomparsa, le indagini e il processo al «mostro» Massimo Bossetti attraverso una paradossale presa diretta differita, in grado di minare ogni distanza temporale e approssimare vertiginosamente i fatti. Traversata da mille voci, la prima persona singolare scivola spesso verso un «noi» che raccoglie il magmatico fiume di informazioni disseminate dagli inquirenti, dai professionisti, dallo sguardo voyeristico dei media e del pubblico – il quale, grazie alla rete, ha per la prima volta facoltà di parola.

L’AFFOLLATO INSIEME dei punti di vista produce un fortissimo rumore, dal quale è impossibile scorporare le posizioni soggettive, comprese quelle dell’autore e del lettore, che ne risultano invischiati come in una sostanza collosa: in questo aspetto si produce la differenza più evidente, anche sul piano etico, con il modello di Carrère. L’esito è una voce artificiale, spezzata, dallo stile nominale e dall’enunciazione spesso enfatica, che si esprime attraverso ripetizioni e inversioni: una lingua estenuante ed esausta, nella quale l’asindeto riproduce l’accumulo confusivo dei dati di indagine. Gli inquirenti infatti, prima volta nella storia investigativa, mappano geneticamente l’intero territorio raccogliendo 23mila campioni di dna e si affidano ai riscontri scientifici per trovare il colpevole. Un flusso di dati che, se offre alcune evidenze (il dna di Bossetti sugli indumenti della vittima), trasforma la tragica vicenda in una allegoria delle mutazioni tecniche del presente: «Gonfi di codici, digitali, genetici, ci gonfieremo davvero, ci innalzeremo come palloni sonda… e non avremo a tirarci verso il basso nemmeno un grammo di realtà, soltanto il nome di un colpevole sulle labbra e la sensazione di essere finalmente certi, di crescere, all’infinito, verso la certezza assoluta e nessuna verità».