Giulio Romano, fantasia Gonzaga, vasi, piatti e bacili dai disegni al 3D
A Mantova, Palazzo Te Un incanto tra Pigmalione e Disney: i disegni in mostra, che il pittore fece come modelli per gli oggetti d’uso della corte, trovano volume grazie alla perizia tecnologica di Factum Art
A Mantova, Palazzo Te Un incanto tra Pigmalione e Disney: i disegni in mostra, che il pittore fece come modelli per gli oggetti d’uso della corte, trovano volume grazie alla perizia tecnologica di Factum Art
Tra gli sterminati affreschi di Palazzo Te a Mantova, c’è un brano sontuosamente illusionistico. Nel chiasso del banchetto delle divinità antiche, Giulio Romano ha dipinto una credenza carica d’oro e d’argento: un trionfo silenzioso di vasi, piatti, bacili e coppe. Da qualche settimana, l’illusione ha preso corpo. Per un incanto che sta tra Pigmalione e Walt Disney, il grande vaso in cima alla credenza è uscito dalla superficie dipinta e fa ora bella mostra di sé ai piedi dell’affresco, panciuto e lucente nella penombra della Sala di Psiche. Grazie all’équipe di Factum Foundation e Factum Arte, il disegno del vaso è stato rilevato in altissima risoluzione, modellato digitalmente, stampato in 3D, fuso in metallo e rinettato.
Si apre così il percorso curato da Barbara Furlotti e Guido Rebecchini (Giulio Romano. La forza delle cose, fino all’8 gennaio), parte di una più ampia rassegna – Mantova: l’Arte di vivere – concepita e diretta da Stefano Baia Curioni per restituire idealmente a Palazzo Te ciò che il tempo gli ha sottratto: «oggetti, tappeti, corami, pitture e naturalmente le persone, la corte, il duca, i suoi amici».
In questo caso la mostra è dedicata alle centinaia di disegni per oggetti d’uso – le ‘cose’, appunto – che Giulio Romano produsse senza sosta per i Gonzaga dal primo giorno in cui approdò a Mantova nel 1524. Elmi, scudi, else di spada, ma soprattutto argenterie pensate per stupire, divertire e provocare: brocche a forma di papera, grandi vassoi dove nuotano pesci e aragoste, saliere che zampettano tra le pietanze assumendo l’aspetto di granchi e tartarughe. In mostra il visitatore troverà anche il disegno per un’indimenticabile pinza per vivande (un becco d’anatra che si apre a forbice per servire arrosti e verdure) e una coppa sorretta da un girotondo di satiri in evidente stato di eccitazione.
Oltre ad «animare la tavola» (Rebecchini), questi oggetti preziosi rendevano visibili – per identità di materia – le monete d’oro e d’argento chiuse nei forzieri del duca di Mantova. Quando si trattava di far sfoggio di ricchezza, le collezioni gonzaghesche di dipinti e sculture difficilmente potevano competere con i metalli nobili. L’insaziabile «appetito degli argenti» (come lo definì il cardinale Ercole nel 1546) dimostra l’importanza «attribuita agli oggetti di uso quotidiano come infallibile metro di giudizio dello stato di salute di una corte» (Furlotti).
Ma a differenza di altri beni di consumo (abiti, cavalli, cibi ricercati) le argenterie potevano esibire qualcosa che non era sul mercato: la fantasia di un designer come Giulio Romano, su cui il duca di Mantova deteneva l’esclusiva. Così nel 1537 il duca di Urbino – forse anche per competere con suo cognato – ottenne da Michelangelo il disegno per una saliera in argento che il British Museum ha concesso in prestito a Palazzo Te (al centro di quella saletta, il visitatore più esperto non farà fatica a immaginare la saliera di Benvenuto Cellini). Ed è quindi sulla forza dell’invenzione che la mostra mette l’accento. Lo sfrenato gioco tra forma e funzione (che spesso è solo un pretesto) tocca il suo vertice nei dettagli: una conchiglia diventa il becco di un’anfora, un serpente si avvita sul bordo di un bacile per fungere da manico, il corpo flaccido di un sileno seduto su un cesto d’uva è perfetto per essere riempito di vino fino all’orlo.
Come è evidente, in questa classe oggettuale il protagonista assoluto è il vaso. Non solo come genere capostipite delle arti applicate, ma anche come metafora delle proporzioni ideali del corpo umano. In mostra questo tema complesso è perfettamente leggibile grazie a un sensuale dipinto attribuito a Jacopo Zucchi dove un’ancella offre a una Betsabea discinta un vassoio colmo di pissidi e ampolle per unguenti. Le radici di questa fascinazione tattile e formale affondano nell’Antico, come ben spiega un saggio di Davide Gasparotto in catalogo (a cura di B. Furlotti e G. Rebecchini, con la collaborazione di A. Geremicca, Marsilio Arte, pp. 208, € 35,00). Visitando la mostra ci si sente come uno dei personaggi del Sogno di Polifilo (1499), dove un corteo festante porta in trionfo un gigantesco vaso decorato da aquile e draghi scolpiti a tutto tondo.
Purtroppo nessuno degli oggetti da tavola commissionati dai Gonzaga ci è pervenuto: appena ce n’era bisogno, le argenterie venivano fuse per battere moneta. In mostra si possono ammirare splendidi esemplari della seconda metà del Cinquecento, ma non si tratta solo di surrogati dei pezzi originali. Nel 1556 l’antiquario Jacopo Strada acquistò a Mantova i disegni gonzagheschi e li portò con sé a Norimberga. Da lì i modelli giulieschi rimbalzarono tra le principali corti dell’impero in uno sciame di copie e derivazioni che furono utilizzate dagli orefici fino alla fine del secolo. Nel raffinato allestimento pensato dallo studio Lissoni per Palazzo Te, le carte e gli inchiostri si alternano agli oggetti tridimensionali all’interno di profondi espositori color cremisi che evocano l’armadio dove i Gonzaga riponevano le argenterie, ma anche quello leggendario della casa mantovana di Giulio Romano che custodiva gli album dell’artista.
Quest’ultimo nel 1539 inviò a Roma un disegno affinché un orefice lo realizzasse, ma si vide tornare indietro un prodotto finito che non aveva niente a che fare con ciò che aveva immaginato. Gli artigiani, dal canto loro, preferivano che i modelli non fossero troppo complicati proprio per evitare ritardi e incomprensioni. Quando si trattava di materiali come l’oro e l’argento, bastava che un dettaglio fosse frainteso per far lievitare notevolmente i costi. Tra committenti, artisti e orefici nascevano così lunghe trattative che – partendo da problemi pratici – finivano per toccare alcuni dei nodi più caldi della teoria artistica del Cinquecento: il conflitto tra l’invenzione e i limiti del medium, lo scarto tra il valore artistico e quello economico, l’inedito e crescente divario tra la paternità e l’autografia delle opere.
A un primo sguardo, La forza delle cose è un racconto magnetico del più stravagante lusso rinascimentale. In breve: «Sua Signoria mangia in oro» (così recita un documento della corte sforzesca fin troppo noto). Ma il discorso intessuto dalla mostra va ben oltre la magnificenza del duca e della sua famiglia. A legare tutto quanto è un fil rouge squisitamente tecnico e senza tempo: la traduzione in tre dimensioni di un’idea grafica. Gli oggetti modellati digitalmente e materialmente da Factum Arte che chiudono il percorso vanno al cuore del problema, rivelando dopo cinquecento anni dettagli inaspettati degli inesauribili disegni di Giulio Romano, anche quelli che pensavamo di conoscere perfettamente.
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