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Giulio Paolini, l’Autobiografia nell’Accademia

Giulio Paolini, l’Autobiografia nell’AccademiaGiulio Paolini, «A come Accademia (III)», 2023

All’Accademia di S. Luca, Roma In Giulio Paolini la Tradizione è «una sorta di osservanza spirituale». Ma nel teatro della sua mente, fra Lotto, Poussin o Tiziano, si è insinuato via via un altro spettro...

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 luglio 2023

Un’amicizia, un’affinità speciale legava Alighiero Boetti a Giulio Paolini. Mentre non riusciva a entrare in sintonia col temperamento sanguigno di Jannis Kounellis, assai gli andava a genio l’ironia metafisica di Boetti, la sua capacità di giocosamente desublimare l’«attitudine all’analisi» che li accomunava e che «a volte dava al proprio lavoro», confessa Paolini ad Antonella Soldaini, «un tratto di cerebralità o citazionismo enciclopedico un po’ stucchevole».

Non sa però spiegarsi Paolini perché, una certa domenica del ’68, Boetti lo abbia trascinato al circo e lo abbia fatto issare sul dorso di un elefante: «Alighiero, una volta riuscito a farmi salire e al pari di un uomo del circo ha fatto uno schiocco con le mani indicandomi come una sorta di eroe!». In quell’immagine memorabile un Boetti in camicia sgargiante, dagli ampi gesti da imbonitore, appare perfettamente in parte; a braccia conserte Paolini, occhiali fumé polo a collo alto e clarks d’ordinanza, conserva invece la postura seria e intenta di sempre – ma un cenno di sorriso malcela lo spasso.

Chissà, forse Boetti alludeva alla proverbiale, elefantiaca memoria dell’amico: quella che una volta Paolini, con la sua formula più celebre, ha definito la «trasparenza etimologica» che nella sua opera ha sempre conservato la Tradizione. Non mera citazione bensì ethos, regola interiore o (dice Francesco Guzzetti col vecchio Bellori) «ordinatissima norma di vivere». P

aolini parla di «una sorta di osservanza spirituale», ma aggiunge di essere da un lato «consapevole di seguire queste norme» e dall’altro di «non conoscerne razionalmente il dettato». Non c’è insomma artista o scrittore, oggi, che meglio di lui incarni il paradosso di Giorgio Manganelli: «arbitraria è la scelta del rito cui mi dedico, rigorosa l’osservanza del rito scelto a quel modo».

Non è un caso che Paolini sia l’unico artista degli ultimi due secoli, forse, a non guardare con sospetto, d’acchito, la parola e il concetto di «Accademia». Già nel 2010 aveva intitolato una sua mostra, in quella di Brera, A come Accademia: titolo che oggi ripete (per le cure di Antonella Soldaini, da un’idea avuta con Marco Tirelli) in quella romana di San Luca (fino al 15 luglio; catalogo Gangemi, pp. 320, ill. col., € 40,00).

Ha un bel dire Tirelli, come pur deve, che nel suo effettivo operato (come dimostra anche l’occasione presente) l’Accademia non è affatto il «luogo della stasi», «sempre identico a sé stesso», dell’immaginario collettivo; se uno come Paolini ne è tanto attratto, viceversa, è precisamente per la «splendida immobilità» che l’Accademia simboleggia ai suoi occhi. Ha ragione Claudio Strinati: più che a Platone, mitico fondatore della prima Accademia, è all’immobilità rituale di Parmenide che fa pensare l’idea di tempo del Paolini devoto di Borges.

Ma l’arbitrarietà conta altrettanto, almeno, del rigore. E allora fa bene Guzzetti a distinguere «la definizione di Accademia come forma di disciplina intellettuale da quella di Accademia come gusto alla moda». Nulla di più remoto, dall’idiosincratica mens paoliniana, di una qualche socialità dell’arte – di una qualsivoglia koinè. La vera Tradizione, con la quale non cessa mai di confrontarsi, è la Propria; un po’ alla maniera di Groucho Marx, l’unica Accademia alla quale può iscriversi è quella composta da lui solo.

È nel teatro della sua mente che campeggiano, Emblemi perenni e immoti, i Trasparenti di Lotto, Poussin o del Sisifo di Tiziano che ora campeggia capovolto nella prima delle tre grandi installazioni che, con lo stesso titolo della mostra, accolgono il visitatore nelle sale d’ingresso a San Luca.

Non è neppure un caso, mi pare, che da una quindicina d’anni a questa parte visiti l’artista, con sempre maggiore insistenza, lo spettro dell’Autobiografia. Cioè quanto più repelleva al Paolini d’antan che scotomizzava il proprio autoritratto, nel ’65, nell’enigmatico impianto di Delfo. Ora invece, ammette con Soldaini, «inoltrandosi nell’ultima stagione» sempre più spesso il suo personale passato remoto «spodesta l’esperienza dell’oggi».

Incastonato al centro della prima A come Accademia, a sorpresa possiamo vedere (o meglio sbirciare) uno degli juvenilia che precedono il mitologizzato «primo», ma da lui sempre definito altresì «ultimo», dei suoi lavori in catalogo: il Disegno geometrico del ’60. È datato 1958 Particolare dell’Atlantide, un acquerello d’azzurro cangiante alla cui base, rosee, baluginano «rovine sommerse»: Atlantide, dice Paolini, per lui «rappresentava l’irraggiungibile». Ma oggi evoca pure il continente sommerso della sua Vita Anteriore.

L’ultima opera convocata a San Luca ha per titolo Voyager. Anche questo è un titolo che si ripete (dal 1989); ma ogni volta con variazioni tanto sottili quanto decisive. In questa quinta edizione l’opera-sonda, appesa al soffitto, consiste in una valigetta che si spalanca mostrando un tecnigrafo e delle fotografie nell’istante in cui precipitano verso terra. Le foto ritraggono l’ambiente circostante, riprodotto però prima dell’installazione, mentre la pioggia immobile di immagini ricorda la topica icaria del Sisifo d’après Tiziano o il magnifico Ultimo sigillo della mostra fiorentina dell’anno scorso, Quando è il presente?

Da spiegare resta il tecnigrafo, per Guzzetti emblema della Regola e dunque, nel senso precisato, dell’Accademia. Certo; ma non è un caso che Paolini rammenti pure, con affabilità inimmaginabile sino a pochi anni fa, il fratello architetto e il padre rappresentante di generi cartari. È lui a farlo iscrivere all’Istituto Tecnico di Arti Grafiche e Fotografiche, dove si diploma nel ’59 (giusto alla vigilia, dunque, del battesimale Disegno geometrico): radice questa che avrà pesato non meno, nel suo sviluppo futuro, della professione di grafico pubblicitario svolta da Andy Warhol prima di dedicarsi all’arte.

Due anni fa, in questo progressivo disoccultamento, è uscito nella rivista «Colophon» un interessante dossier su Giulio Paolini grafico (con testi di Marco Belpoliti e Valentina Russo). Si viene così a conoscenza dei tanti lavori eseguiti, dagli anni sessanta ai primi ottanta, per le edizioni della RAI, per l’Einaudi dell’amico Paolo Fossati (ben prima del mitico Idem del ’75) ma anche per gli LP di Giorgio Gaslini, il Teatro Stabile di Torino eccetera.

In molti casi quei libri che manipola come materiali di lavoro il suo avatar «Irnerio», per lo sdegno del Lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, si scopre così che li aveva fatti lui stesso. Acrobata davvero elegante, chi ha saputo giocare due parti in commedia. E che ora finalmente esce al proscenio: a raccogliere i più meritati degli applausi.

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