Ma che senso può avere ripubblicare a soli dieci anni di distanza una raccolta di saggi così articolata e impegnativa, così eterogenea nell’ideazione e nella composizione come L’invenzione dell’Italia moderna di Giulio Bollati (Bollati Boringhieri «Saggi. Letteratura», pp. XXI-195, euro 24,00)? Senza tener conto del fatto che i saggi in questione sono parecchio datati: il primo di essi, dedicato alla Crestomazia leopardiana, risale al 1968; quello successivo, sulle tragedie manzoniane, al 1965; mentre l’ultimo, sulla prosa morale e civile, è del 1995. Sarebbe davvero una notizia sorprendente se la ragione fosse puramente commerciale; se cioè, «andata a ruba» la prima edizione del 2014, le richieste dei lettori fossero state così pressanti da convincere l’editore a colmare il vuoto sul mercato. Ma così non dev’essere dal momento che la prima edizione risulta ancora disponibile.

Non meno sorprendente sarebbe comunque un’altra ipotesi, ossia che a spingere a questa nuova edizione sia stata una decisione di pura politica culturale, che potrebbe suonare più o meno così: a ogni generazione (in realtà anche meno) spetta il suo Bollati! Chissà, il fatto è che il libro in sé ha una coerenza di impianto, pur essendo una raccolta di saggi, e una eleganza di pensiero e di scrittura che ne fa comunque un libro importante, necessario, di taglio storico ma su testi per lo più letterari. Il che ci porta dunque a discuterne nel merito, a partire dal titolo che rinvia all’altro fondamentale saggio di Giulio Bollati, ossia L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (Einaudi 1983, ma ripubblicato nel 2022, e anch’esso a dieci anni di distanza dalla precedente edizione del 2011). I due volumi formano una sorta di dittico che raccoglie nel complesso la riflessione di Bollati attorno a quello che è il suo tema privilegiato, o il suo pensiero dominante: com’è che siamo divenuti ciò che siamo? Quando ha cominciato a incistarsi la nostra storia? E a cosa deve il suo sviluppo così originale, così diverso da quello delle altre nazioni europee?

Insomma l’interesse di Bollati è sempre stato il presente, la natura e il carattere dell’italiano di oggi (nella duplice accezione di lingua e di tipo umano), ma da uomo di grande cultura e saggezza si è impegnato in una assidua ricerca delle origini e dello sviluppo di quel carattere. È questo in fin dei conti il senso di quanto nota Alfonso Berardinelli nella prefazione al volume: «se c’è un autore per il quale il rapporto fra critica e autobiografia (…) è più scoperto, questo è Giulio Bollati», aggiungendo però con acutezza che «l’autobiografia di un critico, per fruttare criticamente, deve essere implicita: un movente che agisce restando in ombra». Nel secondo volume di questo dittico ideale, dunque, l’interesse di Bollati è rivolto ad approfondire il rapporto tra i maggiori scrittori italiani del XX secolo e la formazione – un po’ processo storico e un po’ invenzione – di un’idea di nazione.

Ricordo di aver letto il saggio sulla Crestomazia leopardiana che apre il volume circa trent’anni fa ricavandone un’impressione intensa, un’ammirazione immediata, e molti spunti di conoscenza. Ora come allora non posso non apprezzare la capacità di Bollati di fare dell’oggetto del suo discorso, l’antologia della prosa allestita da Leopardi per l’editore Stella di Milano, un oggetto vivo, investito di ambizioni e finalità che vanno al di là del genere apparentemente innocuo della selezione di belle pagine della tradizione letteraria. E questo perché, come nota l’autore, «a quella data (1827) ogni operazione di qualche rilievo nel campo della lingua e della letteratura investe immediatamente la totalità del quadro culturale, drammaticamente polarizzato intorno alla metafora di nazione».

Nella faticosa e per lungo, lunghissimo tratto irrisolta ricerca di una lingua che «faccia» gli italiani, Leopardi prova a inserirsi con questa iniziativa editoriale, e proprio mentre sta correggendo le bozze delle Operette morali, ossia nel momento in cui prova a dare, riuscendoci magnificamente, forma concreta e moderna all’italiano. Si colloca a questa altezza per Bollati il momento di massimo impegno civile e politico di Leopardi, a partire dalla ferma convinzione del poeta secondo cui l’Italia «non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai nazione». Il fallimento del progetto leopardiano, che scontenta parimenti, anche se per motivi diversi, classici e romantici rappresenta non solo una sconfitta personale, ma l’occasione perduta di accogliere una proposta di «riforma generale dell’uomo (un nuovo “stile”)» che avrebbe forse allontanata, vista la distanza tra questa idea e il tessuto culturale a cui era indirizzata, la maturazione di un’unità nazionale, ma nello stesso tempo, chissà, avrebbe potuto renderla più salda, matura, profonda, e comunque diversa da quella che poi è stata ed è.

L’altro nodo del dilemma, inevitabilmente, è Manzoni, affrontato da Bollati da due punti di vista, che alla fine risultano comunque convergenti: da un lato nel saggio dedicato alle tragedie viene analizzata l’elaborazione della figura dell’eroe manzoniano, dal Carmagnola all’Adelchi, mettendo in luce soprattutto il conflitto a cui l’autore si espone dovendo far agire il suo personaggio ma concependo l’azione stessa come atto ripugnante, per cui «non resta / che far torto o patirlo»; dall’altro, nel discutere la posizione di Manzoni nei confronti della Rivoluzione francese l’autore ne mette in luce le contraddizioni tra un’adesione di fondo ai valori della libertà, della giustizia e dell’umanità e le ricadute concrete che ne hanno stravolto il senso.

L’ultimo saggio, piuttosto ampio, è dedicato alla Prosa morale e civile, con una serie di ritratti che vanno da Pietro Verri a Beccaria, da Alfieri a Foscolo a Mazzini ecc.: anche questa è in buona sostanza la storia di una sconfitta, quella delle aspirazioni illuministiche che avevano come obiettivo la conciliazione tra utilità e virtù. «Conciliazione che se fosse stata realizzata avrebbe evitato le distorsioni e i ritardi di una “via italiana alla modernizzazione”, vale a dire di una crescita materiale non accompagnata, anzi, al di là delle dichiarazioni retoriche, di fatto separata da una coerente e parallela crescita culturale, etica, civile».
Il rammarico evidente che emerge in questi studi, soprattutto in quelli dedicati a Leopardi e Manzoni, è legato al divario tra le urgenze politiche del tempo, che impongono di portare a termine un fatto semplice e concreto come l’unificazione del Paese, e la cultura di questi scrittori, «inadeguata per eccesso, quasi talvolta un lusso ingombrante e superfluo, una causa di equivoci, un pomo che i contemporanei tramanderanno alla discordia dei posteri».

Se poi dall’oggetto di studio, così brillantemente affrontato e svolto, si volesse risalire alla mano che ha tracciato quelle parole, o addirittura all’uomo che ha pensato quei pensieri? Con gusto ci si potrebbe allora rivolgere alle Memorie minime appena riproposte (pp. 61, euro 10,00) dallo stesso editore (la prima edizione, sempre con la prefazione di Claudio Magris, è del 2001). Otto brevi prose, neanche in verità racconti veri e propri, in cui libero dal rigore del pensiero, incline ad assecondare la leggerezza della penna, Giulio Bollati rievoca con grazia e umore delicati momenti di vita rimasti impigliati nella rete della memoria, piccole inesattezze a margine di eventi più grandi (la visita a Picasso, la ricerca di una fonte iconografica leopardiana, il dono di un tartufo al leader sovietico ecc.) in cui l’osservatore, curioso, distante e presente nello stesso tempo, dimostra una inaspettata capacità di confidenza e intimità con il lettore.
Esco infine lieto, soddisfatto, da queste letture, con la convinzione di saperne di più circa il dibattito attorno all’idea di nazione, con maggior consapevolezza dell’impegno anche politico leopardiano (che non è eroico solo nelle canzoni) e delle posizioni di Manzoni, ma anche, grazie a quelle minime memorie, con un senso o sentimento di amicizia, tutta «novecentesca», con questo intellettuale impegnato, appassionato, italiano.