Nel 1986 il campionato di calcio italiano è ancora il più bello del mondo nonostante gli ingenti debiti, le scommesse clandestine, l’invadenza delle tv private. Sui nostri campi giocavano Maradona, Platini, Boniek, Rummenigge, Passarella e un portiere bravo e affidabile, Giuliano Giuliani, il numero uno del Verona. I bambini spesso sognano di emulare le gesta dei loro beniamini nel corridoio di casa o nel prato vicino, sperando di diventare un giorno come loro. In quell’anno Paolo, terza elementare, scrive una lettera al suo idolo, Giuliani, esaltandone lo stile di gioco e le parate favolose. Non la spedirà mai, la fotocopia del foglio di quaderno a righe grosse apre Giuliano Giuliani, più solo di un portiere (66than2nd, pagine 200, euro 16) il libro del giornalista del Corriere della Sera, Paolo Tomaselli, quell’alunno diventato grande, che torna a occuparsi di quell’estremo difensore col viso d’angelo incorniciato di riccioli neri, cercando di capire di più sulla vicenda del suo calciatore preferito, morto di Aids, in completa solitudine, dimenticato e «scansato» dal mondo del pallone.

CON UNA PENNA LEGGERA, evitando le trappole della retorica, Tomaselli affronta la sua meticolosa ricerca, aprendo tutti i cassetti della memoria, rincorrendo voci, emozioni e tanti interrogativi insoluti più di venti anni dopo la sua scomparsa passando dai compagni di squadra ai primi allenatori, gli amici e i conoscenti e i familiari. L’infanzia è stata dolorosa per questo ragazzo cresciuto con gli zii ad Arezzo dopo che i suoi genitori si erano trasferiti in Germania, a Offenbach sul Meno, illudendosi di ricominciare daccapo, senza violenza e gelosia. Però il padre Nino viene cacciato con un foglio di via e la madre Antonietta prova ad andare avanti, tra un impiego al tribunale e un altro in un negozio di vestiti fino al tragico epilogo, uccisa dal suo nuovo compagno.
Saltare, cadere, rialzarsi, tuffarsi e finire ancora a terra: il lavoro quotidiano del portiere. Il training di quel ragazzino magro e alto, in spiaggia col fratello e gli amici, cresciuto nell’Arezzo – esordio in serie C a diciott’anni- poi passato al Como dove debutta in serie A a ventidue, con Ricky Albertosi come modello ispiratore. Tre stagioni a Verona per la sua crescita totale, con un rendimento eccellente, ormai un portiere completo, seguito da molte big.
«Ho ricevuto un lancio dalla difesa, l’ho stoppato col sinistro e prima che rimbalzasse, mi sono girato vedendo Giuliani fuori dalla porta e ho tirato subito da oltre 40 metri». Così Maradona racconta in tv la sua magia, il pallonetto che tocca il palo interno e va in rete, il suo primo incontro con Giuliani, in un Napoli-Verona 5-0 al San Paolo, seguito poi qualche anno dopo dai consigli alla dirigenza azzurra di prendere quel Tiramolla esplosivo che gli ha parato due rigori e ha uno stile pulito quanto efficace.

PROPRIO DIEGUITO sarà l’artefice dei suoi successi e forse della sua rovina (la promiscuità alla festa dell’addio al celibato del pibe de oro). Giuliani diventerà il guardiano della porta più vincente della storia del Napoli (uno scudetto e la coppa Uefa), uno dei più bravi della sua generazione (chiuso in nazionale da Zenga e Tacconi, vestì la maglia dell’Olimpica di Zoff), essenziale tra i pali, timido e introverso di carattere, poco attento all’immagine, con tanti interessi diversi, dall’abbigliamento (aveva una catena di negozi) al mondo della pittura (coproprietario di una galleria d’arte a Como) e naturalmente le auto più veloci e costose e le belle donne, forse il riscatto di un’esistenza complicata in provincia, il riconoscimento di avercela fatta ad arrivare in alto, con pieno merito.Proprio dieguito sarà l’artefice dei suoi successi e forse della sua rovina (la promiscuità alla festa dell’addio al celibato del pibe de oro). Giuliani diventerà il guardiano della porta più vincente della storia del Napoli

E INVECE la parabola, triste e sfortunata, di Giulio – come lo chiamano tutti in campo e fuori – punta verso l’abisso, dall’addio al Napoli campione (incomprensioni col tecnico Bigon e spogliatoio incrinato) fino alla scoperta della sieropositività, continuando a giocare con la maglia dell’Udinese. La peste del secolo, l’Aids, incuteva paura specialmente nell’ambiente ipocrita e ignorante del pallone che preferiva girarsi dall’altra parte e fingere di non vedere. Il portiere taciturno e malinconico si ritrova solissimo, abbandonato da ex compagni e conoscenti, finendo a fare l’osservatore in tribuna, salutato a stento ma evitato al massimo, lasciato a combattere il nemico terribile senza il conforto di parole e persone amiche, cercando di proteggere la figlioletta. Morto giovane a 38 anni, il suo nome viene condannato alla damnatio memoriae probabilmente per lo stigma sociale della sua malattia. «Solo Renica mi ha chiesto scusa per il silenzio di quegli anni e per l’assenza al funerale. È stato l’unico. Credo ci voglia coraggio nella vita, e se adesso qualcun altro lo tirasse fuori per venire a chiedere perdono, gli direi anche grazie – confessa la moglie Raffaella – Altri calciatori che sono morti in maniera diversa vengono ricordati ancora oggi, con partite annuali, tornei giovanili o altro». Naturalmente il ricordo più dolce appartiene a Gessica, la figlia oggi mamma, che si addormentava con la mano del padre nella sua. Quelle mani bellissime, finalmente slacciate dai guanti. Quell’appoggio fisico per trasmettere tutto l’amore di un uomo,un padre, un portiere che ha assaporato troppo in fretta la scalata alla gloria e la caduta nella polvere.