Giulia Niccolai, le tre valigie, un destino in figura
In quel libro straordinario che è L’infinito istante, Geoff Dyer rievoca il momento in cui il grande fotografo ebreo ungherese André Kertész rientra in possesso di una valigia piena di negativi da lui lasciata a Parigi nel 1936. A New York doveva starci un anno, ci resterà sino alla fine dei suoi giorni. Quando nel ’63 riappare la mitica valigia, tutto cambia: a Parigi e a New York gli fanno due grandi personali e Kertész viene riconosciuto come un grande maestro. Quando esce il libro di quelle sue prime foto, lui lo sfoglia con le lacrime agli occhi. Tre anni dopo muore novantunenne: il cerchio si era chiuso.
È un po’ un tòpos, questo del riapparire a distanza di grandi giacimenti di fotografie, per qualche oscuro motivo andate perdute e per qualche altro oscuro motivo riapparse proprio al momento giusto: la storia di Vivian Maier, ben più nota, è altrettanto eloquente. Se il tòpos ci colpisce tanto è perché associamo la fotografia all’assoluto presente in cui viene scattata, o all’assoluto passato del tempo che ci appare quando quelle immagini guardiamo: in questi casi si vede invece come quello della fotografia sia insieme, per dirla con Dyer, tanto il tempo dell’istante che quello dell’infinito. Un’immagine dialettica, dunque, insieme legata al proprio tempo e a quello futuro in cui viene contemplata, è quella che per Giorgio Agamben (in uno dei frammenti più belli fra quelli ora raccolti da Einaudi nella Mente sgombra) evoca il Giorno del Giudizio.
Da un pezzo era diventata un romanzo la storia di Giulia Niccolai fotografa: da lei stessa raccontata nei libri autobiografici che, da Esoterico biliardo (2001) sino a Favole & Frisbees (2018), hanno commentato la prima parte della sua vita. Cioè quella segnata appunto dalla fotografia. La partenza per New York con la madre americana, all’indomani della fine della guerra; e poi la vie de bohème, a Brera nei primi cinquanta, al bar Jamaica, dove l’affascina l’esistenza libera dei fotografi giramondo, da Mulas a Dondero. Ha deciso: farà la fotografa anche lei. Decisivi due lunghi viaggi nella sua seconda patria, nel 1954 e nel 1960-’61: nel secondo ha modo di seguire da embedded la travolgente campagna presidenziale di John Kennedy.
La prima incrinatura, in questa jeunesse dorée, Niccolai l’ha raccontata tante volte – ed è in effetti un episodio eloquente. Alle Olimpiadi di Roma trionfa nello sprint la fulgida Wilma Rudolph, e «La settimana Incom» la spedisce a Nashville per immortalare la gloria della «gazzella nera». Invece lei trova una ragazza svuotata e depressa (morirà di cancro a cinquant’anni), ma la rivista pubblica lo stesso la favola della Cenerentola dell’emancipazione. Racconta Niccolai in Foto & Frisbee (Oèdipus 2016): «mi ero illusa stupidamente (…) che come fotografa e giornalista (…) avrei potuto conoscere il “mondo” dietro le quinte, e che da quella vantaggiosa prospettiva l’avrei anche capito meglio. Niente di più falso».
Ancora per qualche anno continua a scattare fotografie, per lo più agli scrittori. Ma un bel giorno decide di mollare quelle macchine a tracolla, che le si erano fatte in tutti i sensi pesantissime. Sarà scrittrice anche lei: scrivendo a rovescio, si capisce, di come piace alle testate generaliste. Al suo primo libro dà un titolo parlante l’amica Giosetta Fioroni, Il grande angolo: il suo è uno sguardo così ampio da comprendere un orizzonte quasi a 360°, ma che deforma l’immagine sin quasi a renderla inintelligibile. Seguiranno la partecipazione al Gruppo 63, a «Quindici» con Nanni Balestrini, e al Mulino di Bazzano con Corrado Costa e il vulcanico compagno Adriano Spatola. Poi una seconda grande cesura: nell’85 un ictus la priva della parola e deve affrontare una lunga riabilitazione che le fa abbracciare il buddismo. Infine viene «riscoperta» (in gran parte grazie a un’intervista, nel 2005, di Marco Belpoliti) e la vecchiaia è fiorita di premi e riconoscimenti sino alla scomparsa in pace, ottantaseienne, il 22 giugno 2021.
Proprio alla fine però, in omaggio alla biografia prescritta di cui sopra, anche a Giulia tocca il perturbamento di rincontrare, all’improvviso, la sé stessa della sua prima vita: nella forma di tre valigie, proprio, a suo tempo abbandonate a casa di Spatola. Alla fine del 2019, pungolata dalla giovane studiosa di fotografia Silvia Mazzucchelli, recupera quelle valigie dalle quali fuoriesce una montagna di provini e negativi. Per un anno e mezzo le due donne si vedono di continuo: la più anziana commenta le immagini, la più giovane trascrive. Il risultato è ora finalmente tra le nostre mani: Un intenso sentimento di stupore (a cura di Silvia Mazzucchelli, postfazione di Marco Belpoliti, Einaudi «Frontiere», pp. 133, ill. b.n., € 38,00) fa la scelta di presentare solo le immagini che Niccolai ha fatto in tempo a commentare (altre – purtroppo non quelle dei convegni del Gruppo 63, con l’eccezione del ritratto di Arbasino in sovraccoperta a Fratelli d’Italia – sono riprodotte nel bellissimo numero monografico che a Giulia Niccolai ha da poco dedicato «Riga»: Quodlibet, pp. 495, € 26,00).
Ma il libro non delude la lunga attesa. A stupire noi, volgarmente laici, è il contagioso senso di vitalità di queste immagini, ma anche il modo in cui il neorealismo della sua formazione viene survoltato, come dice Belpoliti, dal suo «gusto per la composizione». Soprattutto stupisce la qualità fuori dal comune delle immagini: sin dalle prime si vede il suo «innato piacere della forma». Ma lo stupore di chi quelle fotografie ha realizzato, e ora le contempla come fossero quelle di un’altra vita, è diverso dal nostro. Après coup Giulia riconosce i segni del proprio destino prefigurati in quelle immagini lontane. Ogni foto, come dice di una roccia a forma di elefante in Sardegna, è per lei uno «spartiacque tra presente e futuro».
In una conversazione con Bianca Tarozzi (riportata in «Riga») dice che «il dolore del passato», dopo la scoperta della meditazione buddista, «è diventato impersonale, è come fosse successo a qualcun altro». Ha scritto una volta che lo stadio più profondo della meditazione tibetana è quello «contemplativo»: un’illuminazione che qui si compie contemplando immagini particolarissime come quelle da lei stessa prodotte, ma facendolo come un’altra. Ecco perché ha sempre insistito sull’avere vissuto più vite: ogni volta reincarnandosi ha potuto ri-leggersi non alla maniera occidentale bensì contemplando, sé stessa, come se da sé fosse astratta. Guardando sé stessa come una figura, insomma.
In Esoterico biliardo commenta Niccolai un’immagine del mentore Giorgio Manganelli: quella degli «spaghi tronchi, non collegati», dei quali secondo l’Encomio del tiranno «è fatto il mondo». Sostenendo che, a differenza di lui, lei a un certo punto era giunta a «riallacciarli», quegli spaghi, sino a comporre «un continuum»: «la chiave per interpretare tutto ciò che era fino ad allora rimasto in ombra». Ora, tra le fotografie ritrovate, una delle sue «preferite di tutto il viaggio in Italia» ritrae dei pescatori che in Sardegna costruiscono delle nasse per la pesca delle aragoste intrecciando dei giunchi. La figura che si compone al centro dell’immagine è appunto un mandala composto di spaghi perfettamente, armonicamente intrecciati. Giunta alla vigilia del congedo, come per iniziativa altrui, quei fili si sono annodati e quel destino s’è chiarito. In Esoterico biliardo concludeva, riguardo a Manganelli, che «quel filo è ciò che ora, in sogno, mi lega a lui nel regno dei morti». Il tuo viaggio finalmente s’è compiuto, Giulia: riposa in pace.
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