«Non sono io che vado in cerca di lui ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. Io sono attratto da un ’particolare’. Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura…». Il punctum di Roland Barthes nella fotografia è, questa volta, un viso di ragazza, una fra le tante che, chine sulla macchina da cucire marca Necchi con il grembiule dal colletto bianco, sono intente a cucire. Al di là dello studium, sempre di barthiana memoria – una fotografia degli anni quaranta in cui si vedono le lavoranti della scuola di taglio e cucito fondata da Giulia Maramotti, tutte con la stessa postura, chine diligentemente dedite al lavoro, proveniente dall’archivio aziendale di Max Mara – al di là di esso si diceva, c’è lo sguardo beffardo, quasi satanico di lei, quella che si distrae dal lavoro e guarda dritto negli occhi il fotografo. Un particolare che irrazionalmente colpisce l’emotività.

GIULIA ANDREANI fa partire da qui, da un dettaglio fatale, divergente e bizzarro, L’improduttiva, il progetto espositivo presso la collezione Maramotti a Reggio Emilia, ospitato nella sede storica di Max Mara in via Fratelli Cervi (fino al 10 marzo 2024). Chiede e ottiene – per metabolizzare la memoria del luogo – di accedere e cercare negli archivi locali: a Reggio Emilia ha avuto il privilegio di risiedere per un po’ di tempo e così ha scavato nel fondo archivistico della famiglia Maramotti, ma anche in quello dell’ex Ospedale psichiatrico di San Lazzaro, in quello delle Officine Meccaniche Reggiane e nel fondo Berneri, in parte conservati presso la Biblioteca Panizzi.

È una pratica artistica ormai consolidata fatta di ricerca e pittura, fatta di archivi e studio della storia dell’arte (agli inizi qualcuno in Accademia le disse che l’artista non studia, non va in archivio, deve pensare solo a dipingere) che Giulia Andreani sente come giubilatoria, liberatrice e necessaria. Al figurativo, che definisce «falsamente più accessibile e potenzialmente più pericoloso dell’astrazione…», aveva aderito definitivamente in seguito a un dottorato, alla Sorbona, sulla Scuola di Lipsia e sul realismo socialista tedesco: la colpisce il monumentale lavoro «a panorama» dell’allora rettore dell’Accademia di arti visive di Lipsia Werner Tubke: un racconto-vetrina gigantesco visibile ancora oggi al Panorama Museum di Bad Frankenhausen in Turingia.

Lettere sbiadite, documenti ingialliti e soprattutto fotografie vecchie in bianco e nero, sono gli oggetti dell’era analogica che lei osserva, acquisisce, fa propri (anche fisicamente: sono una mole di immagini-fonte, sui muri del suo atelier parigino o conservati in faldoni, «poco ordinati» ci dice, ma che formano il suo atlante personale).
Da quella che non è una ricerca archivistica ortodossa, (non le interessa il risultato filologico: «mi sento semmai come uno scoiattolo, un esserino che va, si prende le cose, le riporta in studio e poi risputa tutto fuori, senza usare mai photoshop») Andreani estrae, dai coni d’ombra della storia, figure dimenticate – quasi sempre femminili – creando un’andata e ritorno intensa e continua fra fonti e mezzo pittorico.

QUEL CHE NE VIENE FUORI è una storia delle donne, quasi sempre relegate alla Storia, quella piccola, fatta di minimali lavori mentre fuori si svolgeva quella grande e «importante», quella fatta dagli uomini. Pioniere, artiste dimenticate, guerrigliere che prendono le armi, attrici del cinema muto e infermiere della Grande Guerra, una scultrice afroamericana che negli anni trenta combatte il razzismo, la gitana anarchica o infine per esempio i volti di sette donne internate a San Lazzaro, da sempre e per sempre anonime. Sulle prime pensionnaires di Villa Medici – Lucienne Heuvelmans, Lili Boulanger, Odette Pouvert – per esempio, si rende conto che, incredibilmente, non c’era quasi nulla di fotografico e allora lei ha l’idea di dar loro il volto delle artiste che erano con lei in residenza.

Insomma cerca, trova, taglia e rifotografa, assembla e alla fine dà tutto in pasto alla pittura. Col pennello traduce la fotografia-immagine d’archivio e ciò che si vede, il risultato finale, è una peinture d’histoire, genere totalmente demodé come lo definisce lei, in cui, non solo è smantellata la gerarchia, finanche nelle proporzioni, ma quel che viene raccontato è tutto nuovo, una narrazione diversa, bruciante, volendo, di attualità.
I suoi ritagli sono passati dal découpage al collage (Hannah Hoch, unica donna fra i dadaisti berlinesi, è uno dei suoi riferimenti), finiscono sui muri del suo studio, talvolta sembrano non aver più nulla da dare e poi invece qualcosa da loro di nuovo riparte («lavoro in modo rizomico», dice).

Da un testo a lei caro (uno più recente è Baise-moi di Virginie Despentes) citiamo: «Ancora più importante è la figura della strega, che nella Tempesta è confinata ad un remoto retroscena, mentre nel libro è posta al centro del palcoscenico in quanto incarnazione di un mondo di soggetti femminili che il capitalismo ha dovuto distruggere: l’eretica, la guaritrice, la moglie disobbediente, la donna che osava vivere da sola e la sacerdotessa wodoo che avvelenava il cibo del padrone…» (Silvia Federici, Calibano e la strega, le donne, il corpo e l’accumulazione originaria). Sono queste le donne che Giulia Andreani dipinge, con volti angelici e spettrali che nascondono segreti, enigmi, battaglie dolorose.

SU TUTTO E TUTTE si spande un unico colore feticcio, quel Grigio di Payne che è anche un po’ blu, acrilico steso ad acquerello in cui gli strati sottili vanno uno sull’altro, da cui le figure emergono piano come da un bagno fotografico: un colore crepuscolare, adatto alle ombre della sera o alla luce dell’alba ma che per Andreani riporta molto allo schermo televisivo coi film italiani, in bianco e nero, che viravano al blu. Alcuni visi sono poi ulteriormente sbiaditi dal silicone aggiunto al colore e su certi volti di donne incolla maschere tribali: è la pesante presenza delle assenti, le assenti dalla grande Storia, le dimenticate da tutti che lei fa diventare sentinelle del presente, quelle di cui oggi abbiamo bisogno estremo.