«Giù nella valle», dove la montagna fa paura
Recensioni L’ultimo libro di Paolo Cognetti ha spiazzato cultori e abitanti delle «terre alte», perché non c’è salvezza nella disperazione che abita un luogo ormai maledetto
Recensioni L’ultimo libro di Paolo Cognetti ha spiazzato cultori e abitanti delle «terre alte», perché non c’è salvezza nella disperazione che abita un luogo ormai maledetto
Giù nella valle, nelle terre maledette, dove il sole si fa vedere di rado e la pioggia batte il tempo di lunghi inverni, oggi senza neppure la consolazione della neve. A due chilometri o meno dal casello dell’autostrada. Ti segue ancora l’odore forte di Milano ma già puoi sentire, in lontananza, quello pungente del ghiacciaio, che intravvedi lassù, illuminato, irreale. Come una quinta che appare un istante, proprio dietro l’insegna viola di un bowling.
«DALLA CITTÀ DI LINCOLN, Nebraska, con un fucile 410 a canne mozze sulle ginocchia, attraverso le terre desolate del Wyoming, ho ucciso tutto quello che trovavo sulla mia strada…». L’anti eroe cantato da Bruce Springsteen, che attraversa la sconfinata provincia americana cercando un senso allo spazio ostile e alla sua solitudine estrema, uccidendo a caso quanto di vivo incontra. Come il cane mezzo lupo, il meticcio magro e pezzato che apre questo nuovo libro di Paolo Cognetti – Giù nella valle (Einaudi) – breve e potente come una fucilata in mezzo al bosco, che continua a risuonarti dentro a lungo, anche dopo che l’hai chiuso e finito, tu credi.
IL CANE TORNATO SELVATICO PER POCO, assassino senza motivo di altri cani, incrociati in una folle corsa in risalita, lungo le sponde ripide del torrente. Verso quella sorgente che non potrà mai raggiungere, lo sappiamo, dall’inizio della storia. Perché non c’è salvezza, secondo Cognetti, nella furia che travolge. Non c’è nella solitudine disperata e neppure nella natura selvaggia, nel bosco, nel fiume, nello stare da soli. Non c’è salvezza se non nella cura paziente, nell’amore minuto. Nel darsi, nell’accogliere l’altro, nel condividere. Nell’essere donna, più di tutto, femmina, gravida di futuro.
I MASCHI GIÙ NELLA VALLE SONO FOTTUTI, tutti quanti, senza eccezioni: ubriaconi da bar, cacciatori di cervi, portati via dal bosco appesi a un elicottero. Poliziotti per necessità e controvoglia, con l’animo del bandito o semplicemente del cialtrone. Senza più amore o non abbastanza per la sfida che hanno davanti, per la risalita che non riusciranno più a fare, lo sappiamo, dall’inizio della storia.
DOVE SI POTEVANO RITROVARE le badlands del Nordamerica se non nelle nostre Alpi, a pochi tiri di autostrada da Milano? Che importa poi il nome della valle dove incrociamo due fratelli e una donna dai capelli rossi, se non a chi si riconosce in negativo nel disegno, senza coglierne né la prosa né la poesia?
COGNETTI, AMMETTIAMOLO, ci ha spiazzati tutti, noi cultori delle «terre alte»: questa volta non ha scritto un libro di montagna, come sembrava ormai tenuto a fare, secondo un cliché che va bene tanto ai cittadini quanto ai montanari. Non se intendiamo per montagna le valli ridenti dei prodotti tipici, le località turistiche della neve programmata, i ghiacciai che si fondono e che dobbiamo correre a salvare. Questa è una storia che si svolge a poche centinaia di metri sul livello del mare, dove la montagna appena comincia e finisce la città, dove il confine tra le due sfuma e si fa incerto, come quello tra cane e lupo.
QUI, E SOLO QUI, SI PUÒ AMBIENTARE un racconto noir come questo, perché qui palpita, per chi lo sa cogliere, quel «buio al limitare della città», the darkness at edge of the town, come cantava Bruce oltre quarant’anni fa. Per vederlo, quel buio, e per farsene affascinare, forse serve proprio arrivare dalla grande metropoli. Lasciarsi alle spalle la sua bolla di inquinamento luminoso e imboccare queste basse valli, gli svincoli, le rotatorie ingiallite davanti agli hard discount, l’asfalto e i neon là dove noi cittadini ci aspetteremmo di trovare i prati, le mucche e le stelle nel cielo. E invece ci viene incontro un paesaggio offeso e danneggiato, come spesso è danneggiata e offesa l’umanità che lo abita e che non sa più prendersene cura, per rinuncia o sconfitta che sia. Come danneggiata e offesa è la grande città da cui noi proveniamo, il mondo intero, alla fine, la nostra casa: non pensiamo di poter scappare lassù, perché non c’è possibilità di fuga verso l’alto, né per i cani né per gli uomini.
UN ROMANZO DALL’UMORE NERO, quest’ultimo dello scrittore milanese. Non triste ma sicuramente arrabbiato e quasi rabbioso. Un libro che appare scritto in uno stato di angoscia, per quanto sta succedendo a tutti noi, al nostro pianeta, alle nostre montagne, al nostro futuro. Scendiamo giù nella valle, allora, insieme a Cognetti e al suo sguardo di cittadino che – almeno un po’ riconosciamoglielo – ha saputo farsi montanaro, senza assumerne il folklore e la posa. NON TEMIAMO DI FARCI PORTARE dal racconto là dove l’inversione termica fa ghiacciare i posteggi degli outlet e trattiene la nebbia accanto al fiume, mentre lassù, sopra i duemila, il sole splende e nemmeno te ne accorgi. Giù nella valle, fermiamoci almeno per lo spazio di una storia maledetta. In quel fondovalle che risaliamo in auto per andare a sciare, magari passando di fianco ad una discarica abusiva, a cumuli di materiali tossici sversati dalla città nottetempo ma che noi non vediamo, in coda al semaforo, sulla strada nera che taglia in due un paese.
ALTRO CHE CIME DA CARTOLINA, montanari operosi, viste mozzafiato. Finalmente uno sguardo pulito sulle nostre Alpi, sulla montagna «sporca e cattiva», quella che preferiamo non vedere, quella più vera.
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