«Il mio lavoro è come un grande allenamento per vedere in modo diverso rispetto a quello corrente» spiega Gisèle Vienne, regista teatrale e coreografa franco-austriaca. Laureata in filosofia, il suo è un approccio fortemente teorico ma ancorato nell’immaginario contemporaneo, con una critica costante alle relazioni di potere – «La società funziona come un regista» afferma – che sfocia spesso nell’indagine delle oscurità dell’animo umano. Incontriamo Vienne a Roma, nell’ambito del festival Short Theatre che le ha dedicato un focus. Chiuderà la manifestazione il 17 e 18 settembre al Teatro Argentina con lo spettacolo Crowd, ispirato alla esperienza di un rave party; prima sarà a Prato al festival Contemporanea, stasera e domani, con L’Etang, tratto da Robert Walser.

La sofferenza che si vive in età adolescenziale è al centro del tuo lavoro. Cosa ti attrae in questo spazio?

È un’età critica, in cui veniamo spinti ad uniformarci al copione che la società ha previsto per noi. Per me la sociologia è lo studio di questi copioni, che non sono affatto naturali, ma costruiti come quelli per gli attori. Non recitarli nel modo giusto implica essere tagliati fuori dalla comunità umana, un’esperienza di isolamento molto dolorosa. È un processo che inizia dall’infanzia, ma credo che durante l’adolescenza venga dichiarato in maniera più forte: questo sarà il tuo modo di vestirti, di muoverti, questa sarà la tua sessualità, e così via. Non c’è un’unica possibilità ma se si vuole rientrare nella normalità, il ventaglio non è ampio. Non la definirei quindi una crisi adolescenziale, ma una crisi politica e sociologica vissuta nella propria carne. Spesso nei miei lavori ci sono rimandi a culture alternative, legate alla musica techno, metal o punk, perché ammiro chi riesce a pensare e agire contro questi copioni, a stare insieme provando a immaginare dei cambiamenti nella società.

Questo discorso come si intreccia con le marionette che realizzi?

Nella nostra cultura riconosciamo le marionette in quanto oggetti – non è così ovunque, ad esempio in Giappone – ma avendo una forma umana, nel nostro sguardo su di loro c’è sempre una certa ambiguità. Per questo, lavorare sulle marionette è per me un ottimo modo per mettere in questione lo sguardo che abbiamo nei confronti di diverse categorie di persone. Non guardare qualcuno, non riconoscerlo in quanto soggetto, è per me il primo passo della violenza. In una performance si è di fronte a un pubblico e il discorso sulle variazioni del guardare diventa pregnante.

La ricerca sul movimento è per te fondamentale. Spesso nelle performance ci sono momenti di immobilità, sono anch’essi un rimando al teatro di figura?

Sono stata molto influenzata da modalità alterate di movimento che possiamo trovare ad esempio nei video di musica elettronica, un aspetto molto presente nello spettacolo Crowd. Mi interrogo sul perché alcuni modi di danzare e di muoverci ci esaltano. L’immobilità è un punto di contatto tra una possibilità del corpo e forme della rappresentazione come la scultura o la fotografia, per me è centrale in quanto possibilità espressiva del silenzio. Possiamo chiederci cos’è il silenzio in musica, oppure in architettura, in letteratura e anche nella performance. Il silenzio è plurale ma non è mai puro, c’è sempre qualcosa che risuona o che viene anticipato. Il corpo fermo non esiste mai, nemmeno da morto, e questo ha un aspetto cruciale in termini di composizione.

In «L’Etang» lo slow motion è una scelta radicale. Che tipo di allenamento richiede?

In quel caso la coreografia rimanda alla musica minimale, come quella di Steve Reich o Philip Glass. Voglio essere radicale nel senso di essere il più possibile precisa nelle scelte e negli spostamenti della percezione, ma secondo me bisogna abbandonare l’idea che radicale significa impopolare o noioso perché non è così, la risposta ai miei lavori lo dimostra. Nel processo creativo condivido con il gruppo alcune domande, come quelle sul rapporto del movimento con il tempo e la memoria, che funziona per strati sovrapposti; cerchiamo quindi dei modi per renderli scenicamente. Facciamo un lavoro molto tecnico sulla dissociazione, ad esempio Adèle Haenel ne L’Etang ha un corpo fortemente stilizzato e al contempo una recitazione molto realistica per rispondere all’umore del testo. La ricerca mira ad esprimersi in maniera diversa e più profonda rispetto a ciò che facciamo abitualmente; una pratica che utilizziamo è il fascial training, che punta allo sviluppo del sistema fasciale per coinvolgere tutto il corpo ed è basata sul Qi Gong e altre discipline orientali. Un’altra tecnica che mi è cara è quella del ventriloquo, che permette di parlare senza muovere la bocca, ma ancora più interessante per me è la dissociazione tra l’intonazione della voce e l’espressione facciale, che richiede un lungo lavoro.