Scrive Giuseppe Barbera in apertura di Breve storia degli alberi da lettura, Edizioni Henry Beyle: «I libri sono fatti della stessa materia degli alberi; fibre che conservano e trasmettono i segni impressi dall’uomo. Si può ricorrere a diverse forme vegetali o, come in passato, a pelle d’animale, ma gli alberi sono la superficie più disponibile perché crescono nei boschi, nelle savane, nelle oasi, nei giardini, nei campi coltivati, ovunque si avverta la necessità di scrivere. Il loro tronco, ampio e curvo, è un invito a tracciare segni purché si disponga di uno strumento appuntito e la corteccia, che protegge l’interno vivo dagli eccessi climatici, dagli incendi, dalle malattie, sia tenera e liscia. Si scrive sugli alberi», continua Barbara, «per indicare direzioni e presenze, attestare possessi e passaggi, ma le testimonianze letterarie – che sopravvivono ai segni momentanei – ci dicono che a essere prevalenti sono i messaggi d’amore».

COME I MENO SMEMORATI RICORDANO, in latino la corteccia è detta liber, la parola libro deriva proprio da questo, e dunque il nesso che lega alberi e libri, scrittura e linfa, cortecce e parole è da sempre particolarmente intima.

DI TANTO IN TANTO, IN QUESTE PAGINE, imbastiamo una navigazione tra le diverse letterature dei secoli passati, già abbiamo incontrato esempi di quegli autori senza patria che mille, ottocento, cinquecento, o duemila anni fa, schiantati tra le rocce di una montagna, indecifrati tra le schegge dei tronchi di pino di una foresta, o ancora anneriti dalla sabbia del deserto, si sono ritratti dal mondo degli abitanti e degli abitati, per vivere come una foglia che cresce e che sventola e che alfine cade, o come una formica che sbuca dalla terra e vive di sola chimica fino al giorno del giudizio.

GIA’ ABBIAMO INTRECCIATO QUALCHE radice con monaci, eremiti e maestri buddisti, e già ci siamo soffermati con quell’ombra giocosa che ogni tanto rispunta, il fratello maggiore dei resilienti che abitano le foreste e pregano sotto i massi, nelle forre umide e gocciolanti, accarezzando musi di lupi stanchi e parlottando con nugoli di passeri e piccoli pesci da lago. Ma, nonostante questo, l’esistenza stessa delle riserve, del tracciato singhiozzante delle Alpi, della prateria oscillante che ricopre distese incerte nel nostro Appennino, quanto i cento, i mille, i diecimila boschi che costellano il paesaggio italiano, è un invito a scrivere laddove noi attribuiamo maggior peso, su quella nostra materia interna che è l’anima, il nostro diario preferito, il più puntuale, il meno leggibile, l’oscuro disegno che ciascuno medita e scolpisce, e ingrana, dentro di se.

L’AVVENTURA DEL CAMMINATORE che si slancia per sentieri a caccia di quel se stesso che ancora non conosce e forse nemmeno potrebbe mai indovinare, è fatta di un dimenticarsi, di un ricucirsi ai piccoli passi che può mettere insieme, tra l’alba e l’ora del meritato riposo, il pranzo al sacco e il tramonto che si staglierà granitico sulle cime, tra le fronde, contro le pareti di roccia e, ça va sans dire, dentro il proprio cuoricino di cartapesta.

CHE ALBERI PROVIAMO AD AVVICINARE in questa ennesima tappa di Arbor maxima? Forse quegli alberi che mai ci potrebbero davvero suggerire la loro monumentale pazienza, tra i tanti grandi e vecchi pastori arborei che la nostra anima ambulante e radicans potrebbe accompagnarci a visitare? Non le querce, che crescono vaste ed ampie, non i castagni che metton su pance, non gli ulivi che come sappiamo danzano, si contorcono e si scolpiscono. Li abbiamo già incontrati. Quindi? Nemmeno i larici che van su dritti, e dunque?

PROVIAMO COI TASSI, IL TAXUS BACCATA, l’albero della morte poiché produce bacche velenose e spesso viene accolto dai religiosi accanto alle chiese e alle cappelle di campagna, come fedele compagno dei secoli che trascorrono, dei pendoli che oscillano, delle primavere che s’anneriscono e si spogliano e ricominciano d’accapo. In Italia abbiamo diversi grandi esemplari di tasso, sebbene raramente possano superare i venti metri di altezza, e ancor meno i loro tronchi crescono rapidi come molti altri alberi detti ad alto fusto.

PARTIREI DA UNO DEI PIU’ NOTI, il tasso di Fonte Avellana nelle Marche, stimato in oltre 600 anni, ma qualcuno ogni tanto ci prova a dire che potrebbe trattarsi di un millenario, se ne sta lì ammirato al fondo di un piccolo orto botanico diretto dai frati del monastero che domina il Monte Catria, tappa dei lunghi viaggi danteschi. Cinque i metri del suo girovita. Si tratta di un povero tasso d’Appennino. Tasso più moderno e civile invece lo potremmo visitare al giardino inglese, a lato della via d’acque, alla Reggia Reale di Caserta, proprio sul margine delle acque cristalline dove scodano con felice noia grosse carpe color terra, o color talpa, cresce un grande tasso dalla curiosa forma cornuta, un tasso taurino, che vegeta da lungo tempo accanto a false rovine che il tempo ha trasformato in vere, per la gioia del visitatore.

POTREMMO INVECE RISALIRE LO STIVALE fino al Friuli, di trai i boschi, dove crescono tassi spontanei, come al bosco Medol, oppure scendere a Codroipo, in pianura, e farsi una passeggiata nel parco interno di Villa Manin a Passariano, uno dei numerosi parchi storici, e qui soffermarci ai piedi di un tasso pluricentenario, quattro metri di circonferenza del tronco. Potremmo svoltare a sinistra e dilagare in Piemonte, tra i diversi tassi che crescono accanto alle chiese, come avviene in una frazione soprana di Verbania, a Cavandone, o nei piccoli boschetti sacri di ville private, sparse tra le pianure del cuneese e del torinese.

POTREMO SALTARE FIN IN SARDEGNA, nelle sue aree interne, laddove radica il più ampio tasso conosciuto nel nostro paese, a Bolotana, coi suoi 775 cm di circonferenza, questo sì, probabile millenario, o nei boschi tutti di tassi arricciati come a Sos Nibberos, o a Tedderieddu.

QUEL CHE TI VIENE VOGLIA DI FARE QUANDO sei accanto ad un esemplare maturo di tasso è di graffiarlo, non è affatto un pensiero gentile, certo, eppure… c’è qualcosa di quel tronco sfilacciato, come se fosse tutto fatto di spago, che ti porta ad accarezzarlo, a tastarlo. E magari, se afferri il capo giusto e lo strattoni si mette a girare e tutto il filo si arrotola attorno al tuo braccio! Una ragnatela di fili rossastri che iniziano a tatuarsi sulla tua pelle, pensa che scena! Pochi giri di inconsueto e l’albero che cresceva lì, in un pezzo di paesaggio, ora cresce sopra di te, le sue fronde le tue fronde, i tuoi piedi le sue future radici, la tua anima allegra e instabile la sua futura fibra perenne e immobile. Un incubo alla Dylan Dog.