Gira il quadro, voglio vedere…
A Bassano del Grappa, "Abscondita. Segreti svelati delle opere d’arte" Una mostra indica il valore conoscitivo dei supporti lignei e dei telai, di firme, dediche, lettere e certificati nel retro delle opere d’arte, e anche la poesia visiva della loro intensa materialità
A Bassano del Grappa, "Abscondita. Segreti svelati delle opere d’arte" Una mostra indica il valore conoscitivo dei supporti lignei e dei telai, di firme, dediche, lettere e certificati nel retro delle opere d’arte, e anche la poesia visiva della loro intensa materialità
La mostra Abscondita Segreti svelati delle opere d’arte, in corso alla Galleria Civica del Museo di Bassano del Grappa, parte dall’intento, semplice ma inusitato, di mostrare al proprio pubblico ciò che normalmente non si può vedere in un museo: il retro dei quadri. Alcune decine di dipinti – firmati, tra gli altri, da Bassano, Magnasco, Canova, Hayez e Sironi – sono stati allestiti negli spazi delle esposizioni temporanee, appesi al contrario perché se ne possa leggere la tela, i meccanismi d’incorniciatura, l’armonia e la complessità dei supporti lignei o dei telai, ma anche firme, dediche, lettere e certificati, apposti sul retro accanto a etichette che testimoniano provenienze, prestiti a mostre, catalogazioni o collocazioni all’interno dei depositi museali. Il retro del quadro, lo sanno bene gli studiosi come i collezionisti, più che per soddisfare una pruderie feticista, è bene ispezionarlo per farci raccontare la storia dell’opera. Talvolta il retro è spazio occupato da pentimenti d’artista, studi preparatori o veri e propri secondi quadri, soppiantati dal lato principe: quel fronte ora riprodotto nella didascalia posta a fianco del quadro, che tornerà visibile solo dopo la chiusura dell’esposizione temporanea (3 settembre).
Allestire questa mostra ha voluto dire coinvolgere lo staff del museo in un lavoro d’ispezione e di ricerca sul patrimonio posseduto, che è normalmente prodromo della stesura di un moderno catalogo generale e che qui ha avuto un inaspettato esito espositivo, coinvolgendo il pubblico nell’intimo del tessuto museale, nella sua officina o sala macchine. Un intento inclusivo che, del resto, in mostra si declina con l’esposizione di altre visioni, meno evocative ma altrettanto inedite, come le casse da trasporto dei dipinti o i frammenti canoviani conservati nei depositi. Chiara Casarin, curatrice della mostra e direttrice del museo, dimostra intraprendenza curatoriale e una consapevolezza dei meccanismi inclusivi attuabili. È una mostra che aggiunge un argomento alle considerazioni sulla responsabilità di un museo dalla lunga storia, che fa i conti con le consuete problematiche di conservazione, fruizione, sostenibilità, accessibilità… ma che oggi è chiamato a interrogare se stesso fin nel profondo di queste necessità.
Non bastasse questo a far varcare a quest’esposizione la soglia del curioso e dell’aneddotico, si aggiunge la poesia visiva dell’oggetto materiale che la mostra fa scaturire con potenza, insieme allo slancio di memoria e consapevolezza che suscita. Girare i quadri non libera, infatti, unicamente la potenzialità conoscitiva dei retri, ma genera nel visitatore una congerie di riferimenti. La mostra si apre con l’evocazione fotografica di un dipinto seicentesco di Cornelius Gijsbrechts, oggi alla Galleria Nazionale di Copenaghen, raffigurante proprio il retro di una tela, appartenente al genere del trompe-l’oeil, che ha reso celebre la pittura di Gijsbrechts, Hoogstraten o Leemans e che, in Italia, era stato anticipato almeno dalle sperimentazioni di Carpaccio e di Jacopo de’ Barbari. È un dipinto che sembra andar oltre il semplice divertissement e che la curatrice legge come «prima manifestazione assoluta e integrale di un gesto autoriflessivo della pittura, un iniziale ed eversivo tentativo di pensare all’arte come a un medium che pensa a se stesso e alle sue strutture nascoste, generando così un nuovo linguaggio».
Qualunque fosse la consapevolezza acquisita da Gijsbrechts, è innegabile che la mostra, parete dopo parete, allarghi lo spettro della memoria, facendo godere il visitatore di una materialità ritrovata. I dipinti perdono la profondità illusiva del fronte, per guadagnare la terza dimensione, occupare finalmente uno spazio fisico d’oggetto che, paradossalmente, il soggetto, normalmente padrone, rischia di obnubilare. In un tempo come il nostro d’immagini strettamente bidimensionali, di appetiti anestetizzati dalla svendita pornografica della realtà ridotta in bit, questa presa di distanza «dal lato A» difende la metafora dell’arte, proprio mentre sembra negarla.
Ricordo distintamente che, da bambino, accorgendomi di essere totalmente succube della televisione, della capacità che aveva quello schermo di assorbirmi completamente, sentissi il desiderio di girare il televisore, non per impedirmi di guardarlo, ma per coglierne lo spessore, per toccarne con mano la terza dimensione, per prendere piena consapevolezza del fatto che quella che avevo di fronte era pur sempre una «scatola» – seppure magica – non la realtà diretta. Allo stesso modo, questi retri aiuteranno la nostra consapevolezza della materialità dell’arte, tanto più innocua della televisione e, oggi, del web, ma pur sempre appartenente alla congerie della metafora.
È un ribaltamento che funziona immediatamente come chiave d’accesso al Museo, visto che, quando si passa alle sale espositive, torniamo a immergerci nella profondità della pittura «di fronte» con una nuova consapevolezza, godendoci a pieno, per esempio, la preparazione rossastra lasciata visibile per trapuntare e far vibrare i contorni in uno straordinario Tiepolo, cogliendo la svolta tizianesca di uno Jacopo Bassano bello come El Greco o scoprendo che il Magnasco, esposto in mostra dal lato della sua elegante intelaiatura settecentesca, ha un pendant trepidante che ce ne fa pregustare il ritorno.
Ma le potenzialità della mostra sono anche concettuali e lo dimostra la capacità evocativa di quest’infilata di retri, così simile e così lontana da quella che possiamo solo immaginare alla Biennale del ’68, dove, come ha recentemente rievocato Politi, gli artisti italiani girarono i propri quadri per una (temporanea) protesta politica. Da lì, la mente potrà andare naturalmente alle sperimentazioni novecentesche viste alla Fondazione Prada di Milano alla fine del 2015 nella mostra Recto Verso, dove si esponevano opere in cui, come già in Gijsbrechts, il retro dei quadri era il soggetto: da Roy Lichtenstein a Giulio Paolini. Passando dall’opera del brasiliano Vik Muniz, che ha fotografato per anni i retri di grandi capolavori – da Leonardo a Van Gogh – la nostra mente potrà allontanarsi liberamente fino a quel dolore per una perdita incolmabile, evocato da Danh Vo alla Biennale veneziana del 2013, dove ci sorprese con la presenza inaspettata del telaio originale da cui fu tagliata e rubata la Natività palermitana di Caravaggio. Un fronte drammaticamente diventato un retro. E anche questa è una metafora.
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