Visioni

Giovanni Truppi tra «Poesia e civiltà»

Giovanni Truppi tra «Poesia e civiltà»Giovanni Truppi

Musica Quarto album per l'artista napoletano: «Il cantautorato è il mio riferimento e la mia aspirazione, anche se non mi piacciono le categorie ed i generi. Ma nel mio modo di esprimermi è si presente una grande vena musicale ma prevale sempre l’esigenza umana di raccontare storie e vicende»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 31 marzo 2019

«Poesia e civiltà sono stati due concetti chiave durante la stesura del disco ma vorrei precisare che la poesia la fanno i poeti, io scrivo delle canzoni. La poesia la vivo più come qualcosa a cui tendere, un atteggiamento, un ideale» Con questi termini, quasi da cantautorato anni ’70, Giovanni Truppi ha presentato pochi giorni fa il suo quarto album, Poesia e civiltà per l’appunto, sottolineando fin da subito una scelta quasi inattuale nel panorama contemporaneo «Il cantautorato è il mio riferimento e la mia aspirazione, anche se non mi piacciono le categorie ed i generi. Anche un rapper può essere visto come un cantautore. Diciamo che personalmente è un’etichetta che comunque mi si addice, poiché nel mio modo di esprimermi è si presente una grande vena musicale ma prevale sempre l’esigenza umana di raccontare storie e vicende» A partire dalla prima traccia Borghesia (Borghesia, sono bastati un paio di secoli/e già sei spazzata via/tra l’incudine e il martello, tra gli schiavi e i padroni) emerge infatti il bisogno di osservare le macerie della società di oggi, anche grazie all’apporto fornito dalla lettura de La scuola cattolica di Edoardo Albinati, perché «ogni canzone è, e allo stesso tempo non è, politica perché qualsiasi cosa lo è. Non è un caso che abbia iniziato a scrivere l’album proprio durante i primi mesi di governo Trump e l’avvio della Brexit e in quel momento mi sembrava di vivere in un episodio di Black Mirror».

I BRANI, che Truppi porterà sui palchi d’Italia, a partire dal 4 aprile e accompagnato da altri cinque musicisti indispensabili per rendere live un disco così stratificato, nascono infatti tra il 2016 e 2017, da una sorta di viaggio interiore del cantautore su temi a lui cari, come il concetto di identità, la vita adulta, la bellezza, il modo di porsi verso gli altri. Argomenti che lo hanno portato alla ricerca di un linguaggio diverso da quello degli album precedenti, nella volontà di trovare una sintesi tra il suono della canzone d’autore italiana della sua prima formazione (Fabrizio De André. Paolo Conte e Franco Battiato) e quello delle suggestioni più forti degli ascolti più recenti (Sun Kill Moon e Sufjan Stevens su tutti). In perfetto equilibrio fra pubblico e privato, le undici tracce dell’album, registrate in gran parte negli Stati Uniti, confermano l’assoluta unicità di una voce capace di fotografare alla perfezione l’odierno smarrimento, come in Le elezioni politiche italiane del 2018 (Ci sembrava l’inizio di un film sul futuro./Eravamo da soli ed avevamo paura), senza bisogno di slogan ma declinando il dissenso fra le mura di casa. A chiudere, una traccia sorprendente, Ancient Society, dove il testo è preso interamente dal libro del 1877 dell’antropologo americano Lewis H. Morgan, da cui il libro prende il titolo: «Avevo letto L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato di Engels e, alla fine del libro, Engels cita per intero una pagina di Lewis H. Morgan, un antropologo americano»

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