Chi è Amin? Chi è questo interlocutore misterioso, notturno, che sovrintende da protagonista – ora come interlocutore dell’io poetante, ora come io poetante a sua volta, ora come soggetto semplicemente evocato sulla scena, nella mente o nello spirito – all’ultima raccolta di Giovanni Ibello, e per l’appunto intitolata Dialoghi con Amin (Crocetti, pp. 72, euro 11,50)? Forse non è altro che il nome che Ibello assegna a quel «Tu» al quale qualunque poesia è sempre e per definizione rivolta, qualunque sia la sua forma: che abbia le sembianze di un monologo o di un dialogo o di una preghiera (essendo queste le sembianze che la poesia può assumere).

CHE DI AMIN RIMANGA misteriosa l’identità, del resto, è coerente con il carattere perfino misterico, e perciò anche sacro, che avvolge questa silloge. Lo coglie benissimo Milo De Angelis nella prefazione, quando nota che tutte le poesie che la compongono sembrano sospese, quasi in bilico, su una specie di «soglia magica»: come se avvertissimo che «qualcosa di immenso sta dunque per compiersi». Ed è proprio qui che risiede il carattere misterico e sacro delle poesie di Ibello, nel nascondere alla vista ciò verso cui sono protese, lasciandone solo percepire l’essenza.
La stessa parola mistero, «mystêrion», deriva da radici che fin da tempi antichissimi volevano dire «chiudo», «chiudo la bocca», «chiudo gli occhi»; è vero quindi che tutto ciò che non si vede, che non si può esprimere ma tutt’al più si può rivelare, appartiene tipicamente alle sfere sacre o divine. Come il sacro, insomma, esprime verità che non si possono cogliere se non trovandovi accesso dentro di sé, al di là della ragione e della dicibilità, così anche molte delle verità espresse da questi Dialoghi sembrano chiedere quasi un atto di fede, perché sembrano sempre sfuggirci nel momento stesso in cui abbiamo l’impressione di averle afferrate.

NONDIMENO sono verità di cui riusciamo a cogliere la potenza, nondimeno sentiamo che ci riguardano – come quando, ad esempio, leggiamo versi come questi: «Quanti millimetri ci separano dal buio?». Oppure come questi: «perché ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura». Oppure, ancora, come questi: «Se vuoi arrivare alla lacerazione/non dire una parola/che sia una». È questo il grande potere della poesia e, nella fattispecie, quello di Ibello: toccare con la voce ciò che non si tocca. Con la propria voce, il poeta riesce a toccare qualcosa che riguarda ognuno di noi: forse il senso di solitudine che pervade la nostra epoca, il timore che la vita ci lasci indietro, in esilio da sé, o che la notte non finisca e non torni il giorno, o non torni la luce, o che nessun fiore fiorisca più.
Amin è ognuno di noi, colui o colei che ognuno di noi aspetta per salvarsi. Forse non ci sarà data salvezza, non sarà possibile nessuna redenzione, eppure sarebbe «così semplice stare al mondo» se solo ne fossimo capaci. Oppure ne saremo capaci, in una «Vita sempre sognata, mai vita». Rimane il dubbio se sia speranza o disperazione: capirlo o deciderlo è rimesso a noi, ciascuno in cuor proprio.