Giovanni Frangi

Le storie che mette a disposizione e il paradigma d’azione che vuole tracciare L’intervista (Magonza, pp. 243, e 25,00) nascono da una fucina di situazioni, nomi e scelte. Per imbastirlo sono intervenuti tre autori, susseguitesi sul palco a ruoli mutevoli e in tempi diversi, sovvertendo le prassi dell’editoria e del mestiere, per raccontare quella che è «Una questione non solo privata».
Accade così che Luca Fiore (1978), un giovane giornalista allora sui 36, ancora al di qua del salto che oggi lo ha portato a essere una delle nuove penne di riferimento della critica fotografica in Italia, chiede all’amico Giovanni Frangi (1959), che punto di riferimento della pittura italiana lo è già da un tempo, di farsi intervistare, magari non solo una volta, magari avendo in testa non tanto un libro molto caro a entrambi come Conversazioni con Testori di Luca Doninelli, che è pur sempre un consuntivo pubblicato postumo, ma le mitologiche interviste di David Sylvester a Francis Bacon e di Gordon Burn a Damien Hirst (Manuale per giovani artisti) o le più prossime e percorribili di Hans Ulrich Obrist al mezzo mondo che conta dell’arte contemporanea. Le undici interviste sono allora registrate, sbobinate e pulite una dopo l’altra, dal 2014, con lunghe pause framezze, mettendo a registro entro il 2018 temi ed episodi che ritroviamo oggi nel volume.
Nei tre anni occorsi al visto si stampi, quella che poteva essere una semplice correzione di bozze, nelle mani di Giovanni Agosti (1961), uno dei più grandi intellettuali e storici dell’arte di cui disponiamo, è diventata una nuova stesura. Al centro è rimasto Frangi, ma è cambiata la coppia e iniziato un lavoro dall’interno del sistema mentale, percettivo e affettivo dell’artista. In questi decenni Agosti è stato, del resto, un interlocutore chiave per la poetica del pittore, curandone oltre una decina di mostre e accompagnandolo con la propria amicizia e scrittura passo a passo, condividendo il proprio immaginario, in un rapporto di dare e avere felicemente simbiotico. Basta leggersi Giovanni Frangi alle prese con la natura, il titolo Feltrinelli che nel 2008 ha raccolto i saggi scritti da Agosti per il primo tratto di strada insieme. Questa volta il modello è l’Autoritratto di Carla Lonzi e la cucina è diventata fortemente autoriale, istoriando la trama con i nomi di protagonisti e comprimari, luoghi e marche, con l’acribia di chi sa che ora o mai più.
Intervistato e intervistante sono diventati personaggi costruiti ad arte e «starà al lettore verificare se la perdita di alcuni dati reali, sostituiti con altri fittizi, le cronologie alterate e il senno del poi distribuito a pioggia qua e là siano riusciti a colpire il bersaglio», ammette il curatore spiazzando la generazione delle bibliografie che pensava di aver capito. Così, se le categorie di un frontespizio vanno un po’ strette alla complessità di un’operazione che segna probabilmente un nuovo paradigma, vien buono uno degl’insegnamenti di Agosti, per cui la vita è troppo complessa per non giocarsela con poesia. Proprio come si diceva da bambini («facciamo che io ero»), accade allora che se lui si veste da curatore, chi ha raccolto le interviste finisce nel titolo e l’autore lo fa l’intervistato.
È così che, tra le domande e risposte di questa intervista, trapuntata da un bellissimo supporto di oltre 130 immagini stese sullo spartito del colore, si procede in ordine asistematicamente cronologico, partendo dal primo studio acquistato con i soldi del babbo in quella Milano intorno a Porta Ticinese, a pochi passi della casa di Alda Merini, alla quale si poteva chiedere un mazzetto di poesie pronte all’uso per una mostra in arrivo, allungandole qualche soldo necessario per la cena o per un buon bicchiere.
Non saranno delusi i patiti del biografismo più spinto, che ameranno gli anni del liceo Manzoni in cui c’era sempre un motivo per scendere in piazza, come il susseguirsi degli studi o delle sedi d’occasione, magari en plein air. Ma c’è pane anche per chi cerca la narrazione sul procedere del mestiere: dall’abbandono della figura al superamento della distinzione tra astratto e figurativo, dalle tangenziali all’approdo alla natura – forse proprio perché «Dio perdona sempre, gli uomini a volte, la natura mai» – fino agli interrogativi sulla vecchiaia dell’artista. E non manca il più specifico giorno per giorno nella pittura: la tecnica, i dubbi sui supporti, la colla di pesce e il Primal ormai fuorilegge, l’emulsione fotografica, la resina epossidica per le stampe al carborundum, ma anche le fatiche della luce diretta o il bisogno di lavorare per cicli, nell’impossibilità necessaria di essere uguali a se stessi: «Tempo fa cercavo di rendere la profondità attraverso l’aria: era la luce che creava lo spazio. Oggi non mi riguarda più. Un artista cambia. Non è una statua. A me, in definitiva, interessa solo il momento, quello che sto facendo adesso».
Il vero fantasma, in accezione amletiana (o ambletiana), ben oltre le pagine a lui espressamente dedicate, è naturalmente Giovanni Testori, lo zio del pittore, il maestro che non smette mai di esserlo, da ascoltare fino ad assorbirne lo sguardo, apprenderne il fiuto, provando a perseguirne gli amori, fino a trovare i propri. È così che i quadri di Francis Gruber a Berna, nel ’76 si vedevano meglio se associati a una notte passata all’addiaccio su una panchina, proprio mentre il baricentro artistico di zio e nipote si spostava all’unisono dalla Francia alla Germania, per la riscoperta della Nuova Oggettività tedesca e la nascita della Neue Wilde berlinese, da Karl Horst Hödicke a Rainer Fetting.
Ci sono pagine da capogiro per l’infilata di personaggi e di situazioni che hanno fatto la storia del nostro secondo Novecento artistico o che la faranno quando sarà giunto il momento, da De Pisis a Morlotti. Un indice dei nomi da perdere la testa, e il fiato, non tanto per i citati – magari in seguito a quell’elaborazione postuma a quattro mani dichiarata in apertura – ma per i personaggi cardine della vita di Frangi, mentre affida una presentazione ad Aldo Busi o fa scattare le fotografie della mostra a Claudio Abate, nel susseguirsi di progetti allestiti nei più prestigiosi musei italiani o per inaspettate sedi nel mondo. È qualcosa di più dell’amarcord asistematico con cui Fiorello faceva il verso a Gianni Minà. Fare una personale alla Galleria Bergamini di Milano nell’86, per fare solo un esempio, voleva dire venire dopo Guttuso e Schifano, o prima di De Chirico, Sironi e perfino Soutine e poter essere presentati in catalogo da Achille Bonito Oliva, il cantore della Transavanguardia, in un momento in cui la pittura era tornata un’alternativa possibile al Concettuale. Questo libro, in fondo, spiega come è stato possibile questo ritorno e come gestirlo, svelando, a chi le saprà distillare, le regole del gioco; quelle che troveremo presto citate in altre interviste, magari rilasciate da quei giovani artisti tanto cari all’autore/pittore, che da lui hanno appreso il mestiere, fuori dall’accademia.