Giovanni Comisso, dalla cronaca quella favola scabrosa
Da qualche anno La nave di Teseo ha intrapreso la riproposta dei libri di Giovanni Comisso accompagnati a nuovi apparati critici. Adesso è la volta del romanzo Cribol (pp. 192, € 18,00), che si avvale della prefazione di Paolo Di Paolo e di una nota di Nicola De Cilia, oltre a un’appendice critica che raccoglie qualche recensione apparsa all’epoca della pubblicazione originaria. Il libro, composto nel 1962, ebbe una lunga gestazione (vedi le svariate annotazioni presenti nel Diario 1951-1964) e uscì nella collana «La gaja scienza» di Longanesi nel ’64; confluì infine nel dodicesimo volume delle «Opere di Giovanni Comisso», sempre pubblicate a cura dell’editore milanese, quattro anni più tardi, in abbinamento a La donna del lago.
Già da queste scarne indicazioni è possibile farsi un’idea della complessità di un disegno musivo che sfugge nella sua organicità finanche al ricercatore più accorto. Non è un caso che Gianfranco Contini facesse riferimento alla «disperazione del bibliografo» e che Rolando Damiani e Nico Naldini, curatori del volume antologico delle Opere, apparso nei «Meridiani» mondadoriani nel 2002, evidenziassero come l’autore trevigiano avesse sottoposto i propri testi a continui rimaneggiamenti, se non a un vero e proprio tourbillon «di carte trasferite da un’opera all’altra». Lo stesso progetto delle summenzionate «Opere» longanesiane, inaugurato nel ’60 e arrivato nel ’74 con Il sereno dopo la nebbia, al quattordicesimo e ultimo volume, se da un lato ha il merito di costituire un riferimento insostituibile, essendo stato curato dall’interessato, dall’altro rileva la mancanza di alcune tessere fondamentali – si pensi a Mio sodalizio con De Pisis (Garzanti, 1954) e al libro d’esordio Il porto dell’amore (Stamperia Antonio Vianello, 1924) –, compresa gran parte dell’attività pubblicistica dispersa, difficilmente rintracciabile allo stato dei presenti studi. Si veda soprattutto la messe imponente di articoli non riconducibili a riviste prestigiose come «Il Mondo», di cui Comisso fu collaboratore abituale, bensì a periodici poco conosciuti, come quelli che facevano capo ad associazioni di medici o artigiani.
Si consideri inoltre quanto la differente contestualizzazione dei brani confluiti in tale progetto, con il suo implicito carico di varianti, crei disorientamento negli stessi specialisti. A peggiorare la situazione ci pensò lo stesso Comisso che, per distrazione, licenziò in Attraverso il tempo, undicesimo volume delle «Opere» e ultimo pubblicato in vita nel ’68, alcuni testi che figuravano già in tomi precedenti. Meritorio è perciò l’intento della Nave di Teseo di svincolarsi da questo ingombrante retaggio riproponendo libri non ospitati nella lezione articolata delle «Opere» quale il romanzo Gioventù che muore (2019) o accoltivi solo in parte, come i racconti di Un gatto attraversa la strada (’22); a questi si aggiungano le splendide prose di Gente di mare (’20) che, in quel contesto, apparvero invece nel nono volume, anche se in forma accresciuta rispetto alla princeps del 1928.
Cribol, felicemente definito da Prezzolini «favola pagana», prende spunto da un fatto di cronaca, e si configura come uno degli innumerevoli travestimenti dell’autore che Piovene giudica «sensuale, istintivo, immediato». Il nome del protagonista, affibbiatogli per l’abitudine di bestemmiare quando gioca a carte con gli amici, è una contrazione dei termini Cristo e diavolo. E nella trama serpeggia tale duplicità, tale ambiguità di sottofondo, nonché la disposizione a stupire il lettore con trovate sempre nuove, accompagnandolo per mano lungo lo spettro di affabulazioni vitalissime e mai disgiunte da una realtà sfaccettata che si vuole rappresentare nella sua essenzialità. Come sottolinea giustamente De Cilia, «più che al diavolo, Cribol rimanda a una divinità silvestre, a un Pan delle colline venete, un vero e proprio inno all’eros della selva». Incentrato intorno alla vicenda scandalosa del protagonista che, per recuperare la virilità perduta, si sottopone, su suggerimento di un pastore incontrato per caso, ad alcune manovre disinvolte come «quella di arrivare ad assorbire il seme umano direttamente da un giovane nel pieno delle sue forze», la vicenda si dipana attraverso le imprese contrapposte di Cribol e della moglie Isabella, sullo sfondo di un tipico paesaggio veneto e di un’epoca storica ancora impregnata di superstizioni.
Del romanzo, ambientato ad Avien, paesino di fantasia in cui si adombra la località di Onigo di Piave, lo scrittore disquisisce in una lettera indirizzata a Carlo Bo in data 15 marzo 1963: «Io non do mai al mio personaggio il senso del peccato nel compiere questi atti, ma questo senso sorge in lui, se lo crea egli stesso e lo vuole scontare in raffronto con la moglie-amica che gli rappresenta l’amore-puro, l’amore-sacrificio». Lo pseudonimo del protagonista, ispirato a un compagno di Comisso chiamato Felice, era stato anticipato nel titolo del racconto Cribol: l’amico d’infanzia, pubblicato sulla rivista «Il Convegno» di giugno-luglio 1929, e poi accolto in Felicità dopo la noia, edito da Mondadori nel ’40, prima di comparire nella versione definitiva intitolata Un ragazzo selvatico nella raccolta Il grande ozio (Longanesi, 1964).
Eppure in questo racconto non vi è alcuno spunto che ricordi la trama del romanzo, se non nell’ambientazione in cui si riverbera il paesaggio, mille volte descritto e mille volte variato, che contrassegna gli idilli di quel suo Veneto infantilmente «felice», composto di greti sassosi sul Piave in cui adolescenti seminudi offrono le membra stanche al sole, sullo sfondo di candidi presepi disseminati lungo le colline un tempo dipinte con colori vibranti dall’antico sodale Gino Rossi. È significativo che il profilo di Cribol, spesso associato a una sensualità omoerotica che, tuttavia, ha qualcosa di satiresco, si ritrovi anche in quelli che sono unanimemente considerati i capolavori di Comisso: dal giovane che accompagna il narratore alla stazione di Pederobba in Giorni di guerra al falegname che lo aiuta a costruire i mobili nella Mia casa di campagna. In un appunto del 15 dicembre 1962, apparso nel Diario, si legge: «Ò finito di mettere a posto il nuovo romanzo Cribol, il diavolo zoppo, dopo quattro mesi di lavoro che mi à quasi esaurito nella tensione di essere chiaro e veritiero».
E più chiaro e veritiero di così Comisso non avrebbe potuto essere, in considerazione di un’aderenza al vissuto priva di filtri (Montale parlerà di faux exprès) che non siano riconducibili a scelte di poetica spesso invise alla morale corrente: il narratore medesimo giustificò la stesura del romanzo con l’«ingenuità dei folli». Esemplare in tal senso è la strenua opposizione alle imprese rocambolesche di Cribol ostentata da don Fulvio, il parroco del paese, la cui intransigenza si ritorcerà paradossalmente contro di lui, trascinandolo verso un imprevedibile suicidio. Qui è giocoforza riportare una peculiare suggestione, nonostante nel Diario non se ne faccia menzione: l’episodio della donna che si rifiuta di ricevere in casa il prete dopo la morte del figlio in miniera, descritto nel cap. XVIII, presenta singolari affinità con quello della vecchia Zelinda in Casa d’altri di D’Arzo, anticipato in alcuni periodici e apparso postumo in volume, su interessamento di Bertolucci, nella «Biblioteca di Paragone» sansoniana nel 1953.
La vena libertaria di Comisso, di «questo contadino mediatore di sementi con nuca larga e tempie rasate», come lo aveva descritto Parise, si manifesta in Cribol, libro non sempre risolto sul piano stilistico, attraverso il richiamo dionisiaco a un rapporto con gli elementi naturali che rimandano, sempre e comunque, alla fonte di un desiderio inappagato e inappagabile. Solo nelle novelle di certo Palazzeschi sono riscontrabili una disinvoltura espressiva e un estro creativo simili. D’altronde il protagonista incarna una sorta di alter ego del narratore, la cui opera multiforme venne apprezzata da intellettuali d’eccezione come Valery Larbaud, Benjamin Crémieux e Roger Peyrefitte (Beckett addirittura tradusse un brano dei Giorni di guerra). In un sintomatico passaggio del Diario affermò: «Io lavorando l’orto lavoro l’universo».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento