Al fotografo del «realismo infinito» bastava un segno, un’architettura, un paesaggio per fermarsi a riflettere e cercare, attraverso quello strumento che sapeva interrogare con sagacia e intuizione – ma anche con sentimento – di cogliere la «verità», l’enigma del reale nelle sue sfaccettature complesse. Giovanni Chiaramonte, scomparso il 18 ottobre a Milano dopo una lunga malattia, era nato a Varese nel ’48 da genitori siciliani di Gela.

FOTOGRAFARE, sin dagli anni Sessanta, era per lui un atto consapevole di analisi profonda della realtà in cui erano confluiti i suoi studi filosofici fortemente influenzati dall’estetica teologica di Hans Urs von Balthasar, ma anche dal «tempo interiore» di Andrej Tarkovskij, dalla spiritualità di Pavel Evdokimov e dal carisma di Olivier Clément.
La sua lunga carriera di fotografo, parallela a quella di teorico, critico, curatore e docente (è stato anche fondatore e direttore di collane di fotografia per Jaca Book, Federico Motta Editore, Società Editrice Internazionale, Edizioni della Meridiana) è stata segnata da un incontro fondamentale: nel ’73 conosce Paolo Monti, Luigi Ghirri e Arturo Carlo Quintavalle.
È proprio il dialogo e confronto con queste tre diverse personalità di intellettuali a formare, o meglio confermare, il suo approccio al linguaggio fotografico, soprattutto nella rilettura interiore del paesaggio. Chiaramonte, la cui prima personale Dov’è la nostra terra (1974) nella storica galleria Il Diaframma di Milano – in seguito ha esposto il suo lavoro in cinque edizioni della Biennale d’arte di Venezia tra il 1992 e il 2013 – figura in quello che è considerato il manifesto della «scuola fotografica di paesaggio italiana»: l’iconico progetto Viaggio in Italia (1984), ideato e curato proprio da Ghirri.

AUTORE DI LIBRI significativi, tra cui Terra del ritorno (1989), Westwards (1996), L’altro_Nei volti nei luoghi (2010-11), La misura dell’Occidente con Alvaro Siza (2015-2018), ha testimoniato con continuità e rigore luoghi profondamente diversi, da Milano a Venezia, da Berlino a Palermo spostandosi negli Stati Uniti (Arizona, Florida, Texas, Alabama…), intercettando anche la luce che illumina le antiche pietre di Gerusalemme. In Salvare l’ora (Postcart 2018) le sue immagini fotografiche dialogano con le parole, brevissimi componimenti che evocano gli haiku giapponesi. Ci sono gli elementi della natura, nella loro forza primordiale e c’è il pensiero dell’uomo tra andate e ritorni nella sfera materiale e immateriale dell’universo, tra spazio e tempo (coordinate fondamentali della fotografia), finito e infinito, silenzio e luce.