Un addio commosso, denso di ricordi e nostalgie, ma «non triste anzi sereno», com’è stato negli ultimi giorni della sua vita Giovanni Berlinguer, morto all’età di 90 anni nella notte fra il 5 e il 6 aprile. Ieri l’imponente aula magna del Rettorato dell’università La Sapienza di Roma ha spalancato le porte per il commiato laico, laicissimo – e non poteva essere che così per lui che era stato il presidente del comitato nazionale per la bioetica e che non ha mai smesso di professare la religione civile della laicità – del suo professore di medicina sociale (dal ’75 al ’99). Nelle prime file, intorno ai figli Mario, Luisa e Lidia, tutta la famiglia, nei volti le tante varianti dell’inconfondibile tratto dei Berlinguer. Tutto intorno l’affetto dei tanti mondi in cui il politico e lo scienziato ha studiato e militato, i suoi compagni di ieri e di sempre, i rappresentanti delle istituzioni (fra gli altri il vicepresidente del Csm Legnini, il presidente del Pd Orfini, il capogruppo Pd al Senato Zanda, il presidente e il vicepresidente della Regione Lazio, Zingaretti e Smeriglio, il vicesindaco di Roma Nieri, Walter Veltroni, Achille Occhetto, Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Massimo D’Alema, Stefano Fassina). E una folla di persone che lo hanno considerato un maestro.

Tante le testimonianze del suo valore di scienziato, di professore «umile e pronto ad ascoltare i suoi allievi», di medico, di profondo conoscitore del sistema sanitario nazionale, dal rettore Eugenio Gaudio a Irene Figà Talamanca, Bernardino Fantini a alcuni dei suoi collaboratori più stretti. Alternati alle voci dei compagni di partito, per lo più ex compagni che ne hanno ricordato le scelte, nei tempi diversi. Quelle di Giovanni Berlinguer e le loro, visto che nel tempo della fine – e che fine – della parabola del Pci-Pds-Ds-Pd, il momento dei bilanci è arrivato per tutti. L’ex ministro Fabio Mussi, che era nel ’correntone’ che al congresso dei Ds del 2001 lo volle candidare segretario contro Piero Fassino, racconta che «aveva già 77 anni ma era la mente più giovane di tutti». «Era un dirigente politico intelligente e moderno, una persona mite e forte allo stesso tempo. Un uomo curioso, aveva forse più domande che risposte, come ogni persona intelligente», spiega Walter Veltroni, «se ne va un’altra persona che ha salvato l’Italia e che ha combattuto le buone battaglie». Achille Occhetto racconta della riunione di direzione – siamo nel 90 – in cui i dirigenti uno ad uno dichiaravano se erano a favore o contro la famosa svolta. «Non sapevo quello che avrebbe detto, ne avevo un po’ timore». Poi il sì di Giovanni, fratello di Enrico, un sì importante, un sospiro di sollievo, e il Pci è alle spalle. Ma «la coerenza non è un dogma ma la capacità di leggere anche il futuro nelle scelte di oggi», spiega Aldo Tortorella, e fu per questo che non volle entrare nel Pd perché la giudicava un’ultimissima svolta, questa volta «senza alcuni contenuti, come la questione morale». «La sua coerenza, la sua intransigenza, e il suo rigore scientifico, tutto derivava dal suo rigore morale» per Luigi Berlinguer, l’ex ministro che qui parla da «cugino», «Giovanni era gentile, ed era gentile senza esteriorità, lo era perché era un uomo buono», soprattutto «era un comunista, un comunista con la minuscola, un aggettivo che quando entra nell’animo è difficile che ne esca».