Il nome di Giovanna Bemporad (Ferrara 1923- Roma 2013) è legato per proverbio all’Odissea di cui diede una versione in endecasillabi sciolti, tuttora insuperata per la chiarezza del dettato e una sapienza metrica così ben dissimulata da produrre l’effetto della naturalezza: la sua Odissea uscì nel 1968, ancora nel ’70 e infine da Le Lettere nel ’92, con un saggio di Maurizio Perugi e il sottotitolo di Canti e frammenti. Per parte sua Giovanna Bemporad ha firmato un solo libro e dal titolo diminutivo, Esercizi, un caso di classicismo così estremo da simulare il classico tout court, come fosse un reperto appena tratto dall’ambra, un volume riproposto in tre edizioni ogni volta sottoposte a riscrittura (1948, 1980, 2010) da cui uscirà la ne varietur, a cura di Valentina Russi, edita da Luca Sossella nel 2012.

Tuttavia il banco di prova inaugurale e terminale per lei non è Omero ma Virgilio. Lo testimonia la scelta Dall’Eneide (Rusconi 1983), l’ultimo suo lemma traduttorio accompagnato da una nota fraterna di Luca Canali, il quale la interroga nell’ortodossia dell’obbligo prosodico «che rimane strenuamente fedele al modulo fisso dell’endecasillabo e però animato dall’interno da mille convulsioni e invenzioni ritmiche» cioè dalle diversioni di una sistematica variatio.

Colpita in quanto ebrea dalle leggi razziali, Giovanna sedicenne grazie all’accredito del preside del suo liceo (il Galvani di Bologna, allora diretto da un eccellente letterato, Ezio Chiorboli) aveva accesso alle collezioni dell’Archiginnasio e aveva visto allora pubblicata, firmandosi con lo pseudonimo di Giovanna Bembo, la sua versione di passi dell’Eneide in una antologia scolastica edita a Firenze dal suo omonimo Bemporad. Ma Giovanna era in tutto già Giovanna e dunque una ragazza leggendaria, una ribelle alla famiglia borghese e alla scuola (senza laurea né diploma, dopo la bocciatura alla maturità), una lesbica dichiarata e una bohèmienne dal profilo inconfondibile, con un pallore da patimento di fame, la selva di capelli neri e gli abiti maschili stazzonati, insomma era colei che l’amico Pier Paolo Pasolini si vide arrivare a Casarsa in bicicletta nell’estate del ’42, disposta a fare l’insegnante di latino, con grande scandalo dei paesani, nella piccola scuola sfollata nella frazione di Versuta. Risaliva al dicembre di tre anni prima il suo primo lavoro compiuto e però mai pubblicato su Virgilio, rimasto in bella copia (grafia chiara e distesa quasi senza un intoppo) nel quaderno scolastico poi donato da Giovanna poco prima di morire a una giovanissima studiosa, Caterina Paoli, che oggi lo dà alle stampe firmandone la curatela: Virgilio Bucoliche (Edizioni QattroVenti, pp. 86, euro 14,00), con un risvolto di Eugenio De Signoribus che punta sulla fedeltà ossessiva di chi ha prestato «la propria voce poetica a poeti che hanno attraversato il Tempo della poesia».

Il modello virgiliano per Giovanna adolescente non poteva che essere quello di Giuseppe Albini (l’edizione annotata de I carmi bucolici esce da Zanichelli nel 1899, la versione con testo a fronte nel 1926), che propone un classicismo senza eccessive ingessature, portato semmai a certe callidae iuncturae scarsamente virgiliane e però tipiche della egemonia carducciana. Chi apra oggi l’ecloga voltata in italiano da Giovanna percepisce d’acchito la predilezione per l’endecasillabo (e d’altronde nulla le è più lontano dei ritmi esametrici o neobarbarici di chi tenti una copertura mimetica e persino grafica dei distici elegiaci d’avvio) ma il suo è ancora un endecasillabo acerbo, che non sa dissimulare il battito interno del metronomo, nel senso che è talmente insistito sugli accenti forti da produrre delle contratture o più spesso delle involontarie cesure che l’onda lunga degli enjambement non sempre riesce a ricomporre.

Ad esempio l’explicit della prima ecloga, celeberrimo (Hinc tamen hanc mecum poteras requiescere noctem etc.) è qui fitto di cesure e remoto da quel tono slontanante e malinconico che caratterizza l’originale: «Qui tuttavia restar potevi meco / e la notte passar su verde fronda: / frutti maturi a noi, castagne molli / copia di latte presso e già lontano / fuman le vette delle case e l’ombre / cadon maggiori dagli eretti monti». (Rilevabili, certamente, il colore acerbo e la patina scolastica ma se còlti in retrospettiva sono preferibili, per stare a un solo esempio e di un poeta più che rispettabile, alla versione procurata da Agostino Richelmy – Bucoliche, Einaudi 1970 – che invece chiude gli endecasillabi in una terza rima che oggi sentiamo poco intonata all’originale: «…Vedi che in lontananza a ogni dimora / il fumo dei comignoli si spande / e vedi pure l’ombra che a quest’ora / dall’altezza dei monti vien più grande»).

Rimane il fatto che proprio le sue Bucoliche, se lette ora per allora, rappresentano il necessario antecedente di un processo autoformativo che nell’immediato dopoguerra giunge a una prima maturazione. Moderno e antico entrano in osmosi e infatti subito dopo la prima edizione di Esercizi: poesie e traduzioni, dall’eloquente sottotitolo, Giovanna firma nel ’52 due magnifiche versioni dal tedesco edite da Morcelliana su diretta committenza di quel grande intellettuale e organizzatore di cultura che fu don Giuseppe De Luca: gli Inni alla notte di Novalis e soprattutto la Trilogia della passione di Goethe, comprensiva di uno dei capolavori tardi, la struggente Elegia di Marienbad che un innamorato ultrasettantenne indirizza a una ragazza di diciassette anni. Seguiranno, oltre il vasto coagulo dell’Odissea, altri titoli fra cui un von Hofmannsthal (Elettra, Garzanti 1981) e uno smagliante Cantico dei Cantici (Morcelliana 2006) dove l’endecasillabo, definitivamente messo a punto, ora sembra liberarsi di ogni peso prosodico e tradursi, per una volta almeno, nella facoltà del canto dispiegato: «Mettimi come un sigillo sul cuore, / come un sigillo sul braccio, / perché l’amore è forte / come la morte, / la gelosia più dura dell’interno».

D’altronde chiunque abbia assistito a una lettura pubblica di Giovanna sa che si trattava di veri e propri eventi scenici dove a risaltare non era tanto la sua persona fisica (magrissima, camicia bianca, gilet e pantaloni neri) e nemmeno una certa enfasi della dizione quanto il gesto da direttrice d’orchestra che batteva, ancora una volta, sui tre accenti forti del suo verso di sempre: a proposito, in una intervista del 1986 (uscita postuma in «Quaderni di arenaria», 3, 2013) aveva detto che «usare l’endecasillabo non significa applicare la misura di un verso stereotipo uguale in chiunque l’adoperi», precisando di avere tentato, nel suo caso, di avviare il metro «senza incrinarne la struttura, verso la possibilità del discorso diretto, verso la chiarezza che altri trova nella prosa».

È ciò che aveva cominciato, tra immaginabili ripensamenti, l’adolescente clandestina nella sala di consultazione dell’Archiginnasio quando a bocca chiusa provava a compitare i versi dell’ecloga in attesa di trascriverli, a casa sua in via Marsala, sul quaderno di scuola (che ora giace con tutto il suo lascito ingente, per la cura di Raffaella Gobbo, nel Centro Apice dell’Università Statale di Milano). Non avrebbe mai mutato le proprie abitudini, Giovanna Bemporad, e infatti il giorno dopo la sua morte, 6 gennaio del 2013, un giornale scrisse che se n’era andata la Signora dell’endecasillabo.