Cultura

Giotto, il gran restauratore

Giotto, il gran restauratoreGiotto, Pala Baroncelli, Santa Croce, 1333

Fu l'alluvione del 1333, secondo lo storico Erling S. Skaug, a indurre l'artista a tornare a Firenze nelle vesti di restauratore urbanistico. Giunti pubblica il suo corposo studio in inglese con un sunto in italiano A partire dal XIII secolo, sembrava che la società europea avesse raggiunto il suo apice: le città avviarono programmi di edilizia pubblica, che nell’Italia centro-settentrionale assunsero particolare rilievo. La piena […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 febbraio 2014

A partire dal XIII secolo, sembrava che la società europea avesse raggiunto il suo apice: le città avviarono programmi di edilizia pubblica, che nell’Italia centro-settentrionale assunsero particolare rilievo. La piena età comunale corrispose, sotto il profilo urbanistico-architettonico, al sorgere dei palazzi pubblici, poli complementari alle cattedrali, che miravano a significare in modo esplicito il ruolo e il primato del Comune, talvolta nei confronti degli stessi edifici dei suoi. In quest’epoca, il palazzo pubblico era programmaticamente concepito come un edificio superiore per fasto e proporzioni rispetto a tutte le altre costruzioni laiche; l’altezza delle torri elevate dalle famiglie del ceto gentilizio doveva essere ampiamente superata: anzi, le torri gentilizie rischiavano di venir «scapitozzate» se superiori in altezza a quella pubblica; il luogo in cui sorgeva il nuovo palazzo veniva scelto perché strategico nella vita della città: anche a costo di inglobare edifici preesistenti. Inoltre, sino a quel momento si può dire che i centri urbani fossero prosperati in modo piuttosto casuale, assecondando l’aumento della popolazione inurbatasi.

Tuttavia, proprio la loro stessa crescita richiedeva ormai qualche forma di programmazione: non si può certo parlare di veri e propri piani urbanistici, quanto piuttosto di maggiore attenzione alla crescita di città che, come si è detto, ospitavano anche centri di produzione importanti al loro interno. Il progetto più importante fu quello pensato per la città di Firenze nella seconda metà del Duecento e affidato all’architetto Arnolfo di Cambio, allievo del celebre scultore pugliese Nicolò Pisano.

Fra 1280 e 1300 Firenze aveva una popolazione che oscillava tra le 80mila e le 100mila unità. La crescita era stata molto rapida e dunque si rendeva necessaria una risistemazione urbana improntata a criteri di razionalità. Inoltre, nel 1260 la sconfitta di Montaperti (nella quale i ghibellini fiorentini esuli e i senesi avevano sconfitto i guelfi) aveva condotto alla distruzione delle torri, delle case e dei palazzi di parte guelfa e il centro di Firenze era dunque in parte sventrato. Gli interventi principali si concentrarono nella zona settentrionale della città, con l’apertura di una serie di direttrici parallele. Altri interventi furono condotti per migliorare la viabilità lungo e attraverso il fiume, nonché per l’ampliamento e la pavimentazione di alcune piazze. Infine, tra 1284 e 1333 si costruì la nuova cerchia muraria, anch’essa prevista da Arnolfo.

Proprio nel 1333, tuttavia, questo dinamismo sembrò subire una grave battuta d’arresto: un’alluvione, simile per gravità a quello ben noto del 1966, danneggiò seriamente la città, dai ponti alla stessa cinta muraria, e costò almeno trecento vite. L’alluvione si portò via anche il supposto simulacro dell’antico dio Marte.

Sappiamo da Giovanni Villani della leggenda che voleva il Battistero di San Giovanni sorto in età costantiniana su un tempio dedicato a Marte, edificato dai romani per festeggiare la vittoria su Fiesole. I buoni auspici sotto cui era nato convinsero i cristianizzatori a non distruggere l’idolo di Marte, ma a collocarlo invece in una torre lungo l’Arno sino al giorno in cui, nel corso di una scorreria disastrosa per la città, gli unni guidati da Attila lo gettarono nelle acque del fiume. Ma la statua non scomparve: recuperata, venne ricollocata per volontà di Carlo Magno presso il Ponte Vecchio, dove rimase sino all’alluvione del 1333, anno della definitiva scomparsa: nel racconto del Villani, insomma, il simulacro di Marte sembra rappresentare per i fiorentini una sorta di talismano.

La scomparsa potè esser presa dalla maggioranza del popolo come un annuncio di grandi mutamenti, sperando che il venir meno dell’influsso di quell’idolo bellicoso, simbolo delle virtù guerriere dei fiorentini, ma anche del loro spirito fazioso, incline alle discordie civili, fosse foriero di un periodo di pace e concordia per la città. Le cose andarono altrimenti. Da allora, il gorgo della congiuntura sfavorevole – i fallimenti a catena delle grandi compagnie bancarie della prima metà degli anni Cinquanta, quindi l’epidemia, poi guerre e rivolgimenti interni – avrebbero condotto la città a una lunga crisi dalla quale, tuttavia, essa si sarebbe ripresa nella prima metà del Quattrocento. Una nuova fase di splendore sarebbe allora iniziata: impensabile, tuttavia, senza il precedente della grande epoca di Dante e di Giotto.

Proprio da questa congiuntura che sembra segnare una nuova fase prende le mosse l’ottimo lavoro di Erling S. Skaug: Giotto and the Flood of Florence in 1333. A Study in Catastrophism, Guild Organization and Art Technology (Giunti, 2013, 112 pp., 18 euro); merito dell’editore italiano aver pubblicato un saggio in inglese, sebbene corredato da un ampio sunto finale in traduzione, che rappresenta una svolta importante negli studi sull’argomento. Sappiamo che, in passato, la tesi patrocinata dal noto storico dell’arte Millard Meiss sul nesso tra peste nera ed evoluzione della cultura dell’immagine tardomedievale ha incontrato prima molti favori, poi almeno altrettante critiche. Oggi si tende ad andar più cauti sui collegamenti fra eventi catastrofici e conseguenze socio-culturali; e, in un certo senso quasi provocatoriamente, Skaug parte proprio dal disastro del 1333 per fornire una chiave di lettura del ritorno a Firenze di Giotto dopo il periodo napoletano e degli ultimi anni della sua opera.

In realtà, l’autore non mira a fornire una chiave d’interpretazione onnicomprensiva, ma (documenti alla mano) dimostra che all’indomani dell’alluvione Giotto ricevette l’incarico di guidare, con il titolo di «maestro», i lavori di restauro dell’intera città; opera alla quale si sarebbe dedicato, lasciando la sua bottega agli aiuti: e da questo partono alcune considerazioni importanti sulla concezione del lavoro artistico/artigiano in questa fase della cultura europea in generale, italiana e fiorentina in particolare. Giotto and the Flood of Florence in 1333, insomma, offre una nuova lettura di un passaggio imprescindibile nella nostra cultura artistica; e al contempo indica una prospettiva metodologicamente stimolante sul tema della continuità e della discontinuità (il «catastrofismo» cui si allude nel sottotitolo) nella storia delle idee.

 

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento