Giornate di Venezia: cinema di sinistra?
I magnifici 70 Un incontro organizzato dal nostro giornale nel 1972, tra sindacati, autori (tra cui Elio Petri e Ugo Pirro), collettivi, e movimento studentesco
I magnifici 70 Un incontro organizzato dal nostro giornale nel 1972, tra sindacati, autori (tra cui Elio Petri e Ugo Pirro), collettivi, e movimento studentesco
Nel corso dello svolgimento delle «Giornate del cinema italiano», il Manifesto ha organizzato a Venezia una tavola rotonda alla quale insieme ai compagni del Manifesto di Venezia hanno partecipato: Pio Baldelli, gli autori Lino del Fra, Elio Petri e Ugo Pirro; Carlo Beraldo, Bruno Geromin, Flavio Grubissa e Bruno Liniero dei sindacati chimici, metalmeccanici, marittimi; Adriano Donaggio dipendente della Biennale; Renato Ferraro e Domenico Aleotti del Collettivo Cinema La Comune di Roma; Annamaria Pedri del circolo Ottobre di Venezia; Roberto Giommi della Lega del Vento Rosso; Paolo Pincioni del Movimento Studentesco. Riportiamo qui una sintesi del dibattito
MANIFESTO. La discussione che faremo, dovrebbe evitare innanzitutto di andare alle cose scontate, che sono, ci pare, tre. La prima è la rottura operata da questa manifestazione nei confronti del vecchio meccanismo del festival, puramente selettivo e mercificante, retto da uno statuto fascista (del ’38). La seconda è la forzatura che la manifestazione riesce ad esercitare, quasi sempre, sugli apparati censori e reazionari. La terza è il successo quantitativo, le sedicimila tessere, la vasta area di interesse
La discussione può invece utilmente cominciare entrando, a partire da queste certezze nel vivo delle questioni che ci stanno di fronte, per mezzo di due chiavi che vi proponiamo: la prima è lo sfasamento tra giornate e lavoratori (il pubblico è quasi tutto di giovani studenti e intellettuali venuti anche da fuori) sia nella costruzione e nella gestione, sia nella fruizione della manifestazione; la seconda è la debolezza delle proposte antagoniste, alternative, il loro ideologismo, il loro distacco e la loro difficoltà ad essere acquisite dai lavoratori, dai proletari, come terreno potenziale e sperimentale per la costruzione di un nuovo rapporto tra cultura e classe operaia.
PIRRO: Vorrei innanzitutto fare alcune precisazioni rispetto a qualche commento che ho sentito fare sulle «giornate del cinema». Quando si parla di prodotti dì largo consumo riferendoci ai films proiettati nel corso delle giornate si dice una cosa non vera, come dimostrano le vicende di molti films che dopo essere stati proiettati una prima volta sono stati tolti dalla distribuzione.
Poi non ci siamo capiti sulla gestione delle «giornate». Non è vero che il tipo di organizzazione è stato impostato dal poi e dal psi. Il psi fino all’ultimo momento è stato contrario all’operazione, preferendo una cogestione della Biennale. Il pei ha cercato invece di avanzare criteri di qualità. Al contrario noi diciamo che la selezione dei films non deve avvenire a monte ma a valle, tramite il pubblico.
Infine le giornate sono divise per rassegne: non ci assumiamo la responsabilità dei contenuti dei films proiettati. Per quanto mi riguarda, avrei messo ogni tipo di prodotto che esce dall’industria privata per avere un maggiore confronto, per creare un movimento tendente a far maturare gli stessi autori di quei films.
Perchè c’erano pochi operai?
PETRI. E’ importante fare un festival, una rassegna? Impostiamo la discussione sulla utilità di queste iniziative. Ho la sensazione che anche queste giornate possano diventare una iniziativa corporativa. Personalmente mi sono sentito a mio agio per certe ragioni e a disagio per questo corporativismo continuamente riaffiorante.
Perché le «giornate» dovrebbero fornire un rapporto nuovo tra il cinema e il proletariato, quando fino ad un giorno prima tutto questo non c’è stato? Ieri ho visto un filmato su Valpreda, destinato certamente al successo, ma proprio perché Valpreda è un divo, che funziona come Brando; ha un magnetismo (a parte quello che rappresenta, che consideriamo ben più che magnetico) che richiama il pubblico. Se lì ci fosse stato un uomo qualsiasi non ci sarebbe questa udienza. Ieri sera si è dimostrato che questo tipo di proiezioni può diventare un fatto consolatorio: non c’è stato nessuno di voi che ha detto: «Vorrei una copia del film per adoperarla in qualche modo». Non si è parlato di quei canali sui quali queste proiezioni possono scorrere. E’ un problema di fondo e continua ad esserlo.
GEROMIN. Abbiamo avuto una impressione negativa dell’esperienza dell’anno scorso, nel senso che, fermi restando i lati positivi di un’iniziativa in alternativa alla Biennale, non si intravedevano dei contenuti alternativi. Noi volevamo che si segnasse un rapporto nuovo tra cultura e classe operaia e avevamo invece l’impressione che i lavoratori fossero esclusi dai dibattiti.
Quest’anno si è avuta una partecipazione di massa alle proiezioni, frutto anche di un lavoro di propaganda dentro le fabbriche, ma tuttora con grossi limiti.
Come superare il fatto che l’autore produce e vende al pubblico la propria opera? Come arrivare al punto che l’autore discuta con gli operai come deve essere fatta l’opera, a che cosa deve servire? Bisogna superare anche in ambienti di sinistra una cultura che viene_ propinata alla classe sostituendovi una cultura fatta con la classe.
L’altro problema è che la stessa manifestazione pur attirando gente è seguita con diffidenza dai lavoratori. Questi vengono qui, si dice, ci fanno vedere qualche cosa sull’antifascismo e se ne vanno. E poi li rivediamo un altr’anno. Sarebbe importante invece, dal momento che il lavoratore costruisce giorno per giorno la sua lotta, come l’autore la sua opera, fare in modo che l’alleanza di questi giorni diventi un qualche cosa di duraturo, un modo alternativo di concepire la cultura. Altrimenti c’è il festival di sinistra, ma sempre il festival.
FERRARO. Sono d’accordo con il compagno del sindacato, ma non basta constatare alcuni effetti, bisogna risalire alle loro cause e allora vedremo che le proposte fatte cadranno nel vuoto.
La diffidenza della classe operaia proviene dal fatto di non essere dentro questa operazione, perché gli operai sono impegnati su un altro fronte, quello dell’autonomia, che è un fronte prioritario.
C’è il cinema militante, che fornisce, si è detto, prodotti troppo ideologici. Ma è una prima risposta e segna una strada sulla quale occorre proseguire. Il ’68 insegna che se non si distrugge ogni mito non si costruisce niente di nuovo.
BALDELLI. Per prima cosa, quando si tratta di queste questioni, bisognerebbe dare una misura esatta dell’avvenimento. Cioè quando si ha a che fare con una mostra, un festival, una circostanza culturale, bisognerebbe evitare una sproporzione del discorso, una enfasi per cui ad un certo punto si stravede e si crede di avere a che fare con un episodio fondamentale della lotta dì classe. Non bisogna fare troppe bizze con strumenti di questo genere. Le carte in tavola sono semplici.
Contro una versione forcaiola di questa mostra si propone un’apertura, una sorta di democraticizza- zione. Ora c’è una contraddizione tra una misura forcaiola sempre minacciosa e alle spalle, e una proposta di questo tipo: quello che ci interessa è trarre il massimo vantaggio da quest’ultima. Una versione riformista del vecchio festival è un fatto che va misurato senza enfasi e con il quale bisogna fare i conti. Di fronte a una correzione democratica non chiedo la rivoluzione, non suppongo che una gestione degli intellettuali di estrema sinistra di questa operazione la possa correggere fino in fondo in modo che protagoniste siano le masse, ma mi propongo di ricavare il massimo risultato dal minimo incontro che possono avere le masse con questi strumenti. Cosa bisognava fare sin dall’inizio? Spingere il decentramento oltre certi limiti proposti e codificati.
Questo ‘non è stato fatto a tempo dai compagni della sinistra rivoluzionaria e la colpa non è degli organizzatori. I seminari poi, perché considerarli secondari? E’ chiaro che se sono specialistici, occorre spingere perché accanto ad un dibattito sedicente tecnico vi sia un dibattito popolare Non averlo fatto tempestivamente è stato un errore e qui va fatta un’autocritica. Poi la mancanza di una presenza organizzata al dibattito. Quando Pasolini dice le baggianate che ha detto, salvo restando il valore della poesia pasoliniana, non replicare in maniera organica è stato davvero grave. E lo ascoltavano duemila persone. Perché non dire cosa stanno a significare politicamente quel tipo di intervento, di sfiducia, quella crisi narcisistica e esistenziale che viene deposta davanti agli occhi degli interlocutori? Certo che quando Pasolini lo si corteggia per tre anni e gli si fa firmare anche un film è difficile poi replicare a fondo. E poi cosa vuol dire fare le linee di proscrizione? Allora dovremmo discriminare anche parte dei prodotti del cinema militante, alcuni dei quali a mio parere sono reazionari, di vecchia e spossata retorica. Perché sul brutto non posso lavorare? Su un’opera negativa che si spaccia per popolare perché non posso intervenire e demistificarla davanti a duemila persone?
Il “caso” Visconti
Abbiamo il compito della controinformazione. Sul caso Visconti per esempio, perché non replicare quando si sente dire che un produttore vale l’altro, che un capitale vale l’altro; come non capire che se si scinde la propria responsabilità dalle trame nere non si può essere collaboratori del signor Rusconi, perché Rusconi significa Monti e Monti è il petroliere filoamericano? Ultimo punto, non c’è stata presenza autocritica rispetto ai prodotti. E’ necessario fare una prima autocritica sui prodotti che passano per militanti, sul fatto che registrare semplicemente il comportamento operaio viene fatto passare per militante.
GIOMMI. Le giornate del cinema sono nate da una ferma contrapposizione alla cultura di regime e da una presa di posizione antifascista. Ma sono solo uno strumento da utilizzare e da cui deve uscire un orientamento per tutti quei registi, artisti e tecnici e per chiunque voglia operare in questo campo in senso popolare e progressista. Nei dibattiti noi abbiamo portato delle dure critiche al film di De Sica. Il film ci mostra una proletaria che conduce una vita disperata, ammalata di tubercolosi, che trova come soluzione della propria esistenza quella di seguire l’esempio delle donne della borghesia. Noi vogliamo vedere dei film che esprimano la forza del popolo.
DEL FRA. Credo che questo dibattito che ha precisi motivi di interesse presenti però confusioni e contraddizioni, sia rispetto al giudizio sulle «giornate» che, sul cinema alternativo. Sono d’accordo con Petri quando sottolinea il carattere corporativo che non può non avere una iniziativa che nasce dalle associazioni degli autori cinematografici. Non sì può d’altra parte dimenticare che queste giornate esprimono anche delle contraddizioni positive. C’è l’intervento dell’industria appoggiata da un largo settore della stampa, delle forze politiche, c’è la vetrina degli autori, ma ci sono anche dei varchi che potevano essere ulteriormente ampliati.
L’intervento della nuova sinistra nel settore cinematografico è stato da anni quanto di più scollato e di più estemporaneo si possa immaginare. Nel momento in cui fate sforzi per dare una fisionomia al cinema militante, voi compagni della nuova sinistra non avete fino ad oggi definito una piattaforma politica in grado di conglobare nuove forze. Non vi siete posti il problema di nuove strutture e di un circuito alternativo e soprattutto non vi siete posti un esame critico di quella che è stata la vostra produzione di questi anni. Molto spesso il cinema militante rischia di essere più arretrato di certi prodotti della sinistra non militante. Penso che sia anche necessario parlare dei rapporti di produzione delle idee nel nostro paese. Su questo punto la posizione dei compagni della sinistra non è ancora definita. E’ un discorso che va aperto perché ci sono due posizioni a mio giudizio sbagliate. Quella dei compagni che si disinteressano di queste cose e quella di coloro che da circa dieci anni stanno inseguendo una ipotesi di tipo riformistico.
MANIFESTO. Una volta realizzato un blocco di alleanze per neutralizzare le spinte forcaiole dei dorotei, della curia e degli apparati repressivi, si è aperta, la partita per il destino di questa manifestazione. I riformisti, dal Pei al Psi, dalle Confederazioni sindacali alla sinistra De, agli enti locali, spingono per utilizzare le idee e le sperimentazioni di queste giornate al fine di ricostruire, su basi nuove, le istituzioni della Biennale Noi pensiamo che in sostanza si tratta di una linea che si propone di tradurre, nella cultura, « l’inversione di tendenza » per mezzo di un centro-sinistra serio e appoggiabile, nel quale il governo di enti culturali o locali, sia direttamente gestibile anche dal Pei.
DONAGGIO. In questo intervento farò riferimento alla mia diretta esperienza di dipendente della Biennale. I fatti della Biennale sono abbastanza noti. La sua crisi risale alla contestazione del ’68 e ’69 e paradossalmente da quella contestazione nasce la gestione di Rondi. In opposizione a questa gestione nascono le giornate dei cinema, che hanno avuto la funzione di mettere in crisi una mostra che era molto appetita dal potere, perché attorno vi giravano miliardi. Così è stato decisivo per la approvazione del nuovo statuto della Biennale la lotta del personale. Una lotta costosa e assolutamente non corporativa (nessuno di noi ha guadagnato una lira). Abbiamo anche proposto un convegno di rifondazione della Biennale, rifiutando il fatto che la Biennale continuasse ad essere quella di prima, con uno statuto diverso.
La nuova Biennale non dovrà più essere solamente un ente di lavoro, di ricerca e di sperimentazione, ma soprattutto un ente che crea delle strutture di consumo critico, in un rapporto reciprocamente utile tra spettatori e regista, tra lavoratori e regista. Ma questo dipenderà dalla capacità politica di pesare su questa struttura a statuto rinnovato.
BALDELLI. Sul futuro di queste giornate c’è stato un intervento chiaro di Napolitano al Seminano che si è svolto ad Architettura. Un intervento ecclesiastico ma preciso. In sostanza ha parlato positivamente della lotta degli autori, ma ha detto chiaramente che il prossimo anno tutto dovrà rientrare nella Biennale. Non si riusciva a capire però se il nuovo Statuto della Biennale e la Biennale stessa avrebbero sopportato e assorbito il lavoro che molti autori hanno portato avanti in questi anni o se la riforma voleva significare la fottitura di questo lavoro, per cui si dovevano considerare queste giornate un momento strumentale, di passaggio.
Voglio infine tornare sul caso di Visconti e Rusconi. E’ una faccenda su cui nettamente sì devono pronunciare i partiti, non genericamente, ma con un rigore tale da far capire a livello di massa che è in atto una manovra molto pericolosa. Non ci si può limitare a dire che per un periodo Visconti è stato un autore nazional-popolare e dopo, invecchiando, è rincitrullito. C’è una coerenza nella scelta che ha fatto. Va fatto un intervento in cui si dice, rispetto a Visconti e al «compagno» Salinari che fa la sua brava prefazione al libro di Rusconi, che si è aperta una prima breccia, dietro la quale (sappiamo qual’è la vocazione dell’intellettuale medio italiano) c’è già un corteo. E questo intervento deve arrivare fino a livello operaio.
PIRRO. Chi egemonizzerà le giornate, ci si è chiesti. Una grande debolezza con cui dobbiamo fare i conti è l’assenza del teatro, della musica… Il prossimo anno può avvenire certo che le giornate del cinema restino, ma le altre manifestazioni rimarranno in mano alla Biennale. Dopo il ’68 per esempio il discorso sulle arti figurative è stato chiuso. E poi, se la maggioranza degli autori vorranno gestire le giornate dentro la Biennale, cosa faremo?
Vorrei poi riprendere un momento il discorso dei dibattiti, perché penso che se i lavoratori non vi hanno partecipato è per il tipo di linguaggio che vi veniva adoperato e per i temi trattati. Era importante trattare dei problemi che riguardano la produzione dì un film, dell’ente di stato, del modo con cui questo ente ha prodotto certi films, in bianco e nero, in mancanza di tramiti come attori noti, e infine di come siano stati noleggiati ad esercenti privati. Il fatto che l’ente di stato abbia ceduto, svalutato il suo patrimonio di sale, lo pone sotto il ricatto dell’esercizio privato. E l’organizzazione dell’esercizio è la forza più grande che c’è nel cinema italiano, quella che condiziona tutto. Di fronte a questo discorso c’è stato un interesse da parte dei compagni del sindacato, perché si toccavano problemi di produzione.
GRUBISSA. Il problema è che dopo le giornate tutti spariranno, e gli operai ce l’hanno con tutto ciò che è saltuario, non continuative e che non crea punti di riferimento. E’ inutile illudersi di poter cambiare se voi, gli studenti, gli intellettuali non costruite un’unità continuativa con la classe operaia. Questa è la premessa necessaria se vogliamo che questa esperienza possa continuare.
Voi dovete risolvere i vostri problemi creando un’associazione che sappia mettersi in contatto con la classe operaia, studiando insieme come far fronte poi al fatto che film come quello su Pinelli o altri sono nel cassetto. Se non sappiamo fare questo si è come quegli intellettuali che hanno capito che oggi conviene andare in una certa direzione «popolare» perché è una strada da battere, perché è di moda.
PETRI. Completamente falso è che i films politici, i films sugli operai incassino più degli altri: i films che incassano sono quelli fascisti. Un ambiente operaio in scena non è affatto commerciale. Si fanno delle analisi completamente idealistiche. Si pretende dagli intellettuali un cinema comunista e non si presentano delle serie analisi su come aggredire la sovrastruttura, e questa è una mancanza culturale ma anche politica. Quando nei dibattiti si mette Pasolini sullo stesso piano di un reazionario si dà un giudizio culturale monco e si perde la possibilità di ottenere da Pasolini alcuni spostamenti, maturati da lui, e non sotto una pressione terroristica e infantile.
Non è vero che l’anno venturo saremo tutti alla Biennale. Vi è una lotta nel cinema, nessuno dei presenti si è mai compromesso con le istituzioni, alla Biennale non ci sono mai stato né ci andrò: è una illusione riformistica pensare che la Biennale accetterà la collaborazione con gli autori e i sindacalisti.
Le giornate strumento dei riformisti?
MANIFESTO. Il problema centrale che sta di fronte al gruppo di autori responsabili di queste «giornate» diventa, allora, in questo quadro, quello del come fare per non diventare oggettivamente gli strumenti della linea riformatrice della Biennale.
Noi pensiamo che occorra fare scelte molto radicali su tre terreni contemporaneamente, quello dei contenuti, quello dei modi di costruzione dei prodotti, quello delle strutture per la loro fruizione. Sui contenuti si tratta di andare ad un’analisi, col mezzo specifico, della concretezza della lotta di classe e della crisi capitalistica, oggi. Sui modi, occorre costruire queste analisi assieme ai protagonisti (la classe, il proletariato). Sulle strutture, conquistando e prendendosi nuove sedi e nuovi circuiti.
BERALDO. E’ importante che al fianco di un discorso organizzativo sulle giornate siano emerse delle analisi politiche importanti. Vorrei fare anch’io alcune osservazioni. C’è innanzitutto una frattura fra la cultura ufficiale, democratica e che vuole essere militante e la realtà sociale Ora, gli operai esprimono una cultura, in fabbrica e fuori, con grosse difficoltà e contraddizioni, attraverso una analisi sociale collettiva (pensiamo ai consigli di zona). Dalla frattura tra questa cultura e una visione della realtà che rimane estranea nasce quella diffidenza dell’operaio nei confronti dell’intellettuale e quindi anche delle manifestazioni culturali, comprese queste «giornate».
La possibilità di un cambiamento sta solo nella dissacrazione dell’intellettuale da parte dell’operaio. Una dissacrazione che deve investire ugualmente il professore, il medico, il tecnico. Le «giornate» potevano avere un ruolo importante: i dibattiti e i seminari potevano, con una diversa gestione, aprire un rapporto nuovo, di confronto, tra lavoratori e intellettuali. E’ stata l’impostazione spesso specialistica di queste iniziative a bloccare la partecipazione dei lavori.
LIVIERO. Come diceva Beraldo, nel corso di queste «giornate» ci siamo spesso trovati di fronte a gente che col pretesto della propria collocazione di sinistra è venuta qui, solo a portare una sua cultura, escludendo qualsiasi rapporto anche in fase di costruzione dei dibattiti.
Ora non credo sia utile che l’anno prossimo, magari sotto gli auspici della Biennale, noi ci troviamo con una analoga gestione di questa manifestazione. Dobbiamo sapere da adesso qual è l’impegno che intendono assumersi coloro che hanno partecipato a queste «giornate», nei confronti dei lavoratori. Facciamo un esempio: sul caso De Sica (non parlo del film ma della operazione che ha subito) la televisione per giorni e giorni ha sprecato servizi, mentre abbiamo a Porto Marghera degli intossicati che il medico di fabbrica si rifiuta di far ricoverare in ospedale; delle autoambulanze (quelle della Montedison) che occorre spingere perché partano; Finali che non riconosce la malattia professionale, gli ospedali che dimettono gente ancora ammalata… Bisogna occuparsi di questo e nello stesso tempo presentare una alternativa. Per l’anno prossimo bisogna fare dei passi in avanti su questa strada, cercando di lavorare insieme con continuità. Sul piano organizzativo noi avevamo richiesto che nel corso di queste «giornate» il dibattito attorno a cinque films (su un centinaio), fosse condotto da compagni dei consigli di fabbrica. Nei confronti di questa richiesta c’è stata una chiusura.
ALEOTTI. Importante non è tanto fare un film politico, ma fare un film e curarne la distribuzione. Creare un circuito alternativo vuol dire uscire dalla logica del profitto capitalistico. Gli autori democratici hanno la possibilità di fare molto, ma che strumenti occorrono per fare dei films che servano alla lotta di classe, che interpretino e stimolino la necessità politica della classe di avere una sua cultura? Qui sorge il problema del circuito alternativo, come strumento fondamentale. Perché non ci può essere in ogni città una sala dove proiettare certi films, lavorando in modo che questo fatto non resti un momento minoritario e isolato? Dario Fo e la Comune hanno segnato una strada da seguire. Fo, uscito dal teatro borghese, va avanti non solo perché è bravo, ma perché ha avuto coraggio, ha saputo interpretare le istanze dei giovani, ha capito che la sua esperienza era monca e meno incisiva se restava all’interno delle vecchie strutture.
MANIFESTO. Non c’è niente da concludere, anzi la discussione comincia qui. E’ indispensabile che il confronto immediato di idee e dì proposte che è avvenuto in questa sede venga avviato e garantito su basi più sicure, con scadenze più continue, con impegni chiari da tutte le parti. Dopo anni di rottura, si va collettivamente abbozzando una linea di lavoro per il futuro, ancora densa di differenze, che non vanno diplomatizzate, con alcuni nuclei di coagulazione. La questione è quella di evitare che ci si riveda fra un anno ricominciando dallo stesso punto in cui ci siamo lasciati. Sarebbe lo stesso avversario a proibircelo, perché le «giornate» non restano così indefinitivamente, a mezza strada, non sono ripetibili cioè così come stanno. Il prossimo settembre o avremo davanti una nuova mostra del cinema, riformata, o vedremo e discuteremo insieme, definitivamente «fuori dalle strutture», i risultati di un lavoro di preparazione, di approfondimento, di produzione comune durato l’intero arco dello anno.
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