Giornale in notturna
Cartelli di strada In quegli anni di lotta e di sangue, come sono tuttora definiti i ’70, videro la luce alcuni quotidiani nel tempo rivelatisi di riferimento nel panorama dell’editoria nazionale. Si trattava […]
Cartelli di strada In quegli anni di lotta e di sangue, come sono tuttora definiti i ’70, videro la luce alcuni quotidiani nel tempo rivelatisi di riferimento nel panorama dell’editoria nazionale. Si trattava […]
In quegli anni di lotta e di sangue, come sono tuttora definiti i ’70, videro la luce alcuni quotidiani nel tempo rivelatisi di riferimento nel panorama dell’editoria nazionale. Si trattava sia di testate dichiaratamente politicizzate, espressione della sinistra extraparlamentare, sia di testate della cosiddetta stampa indipendente ma che di fatto dipendevano, come è nell’ordine delle cose, da gruppi di potere. In ambito regionale, nel volgere del decennio, uscirono giornali d’informazione che davano spazio a realtà periferiche di rado, prima d’allora, riportate dalle cronache. Fu uno di questi, in piena rivoluzione tecnologica, a coinvolgerci e a far esaltare una stagione vissuta con spirito ed energia mai più ritrovati. Dalla lavorazione “a caldo” della pagina, composta in righe di piombo con la linotype e montata a mano sul bancone, si passava alla lavorazione “a freddo” della fotocomposizione, ossia all’impaginazione elettronica tramite videoterminali.
In molti, sia in redazione che in tipografia, iniziavano il mestiere, per cui l’improvvisazione era tanta mentre la professionalità era in divenire. Le figure di redattore o di correttore dei testi o di grafico-impaginatore si accavallavano e spesso coincidevano, animati come si era dalla voglia di strafare, di dimostrare dedizione in una situazione di emergenza continua. Le redazioni dei giornali, accessibili a tutti, erano luoghi di attività frenetica dominati dal frastuono delle telescriventi e delle dattilografiche, dal vocio di innumerevoli persone che operavano gomito a gomito mentre gli articolisti si concentravano meccanicamente per la stesura dei pezzi. Non c’erano orari predefiniti. Le fasi di lavorazione prevedevano turnazioni di un ciclo aperto nel quale vigeva un unico comandamento: chiudere le pagine e mandarle in rotativa. Ogni giorno un imprevisto e ogni giorno s’imparava qualcosa che con quella del giorno precedente faceva esperienza. Ma più che il giorno, era la notte a vincolarci. Nei quotidiani solo parzialmente si lavorava nelle ore notturne: nel nostro esclusivamente in quelle. Stavamo in estate, all’avvio dell’impresa, ed entravamo al giornale alle otto di sera: ne uscivamo soltanto quando si finiva. Di giorno andavamo in spiaggia, è vero, ma pure negli anni ’70 ci s’incontrava nelle ore libere serali. Per il giornale avevamo barattato le occasioni della vita relazionale, restando fuori dal giro: dei bar e delle feste nei club, delle comitive e degli appuntamenti, delle ragazze che avevamo disinvoltamente avvicendato nel corso della nostra egoistica giovinezza. Finito tutto. Lo scopo ultimo era uno e uno solo: fare arrivare in edicola il giornale. E ogni notte, meravigliandoci, si rinnovava il miracolo.
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