«Oggi farò quel che vorrà la luce» scriveva in un memorabile endecasillabo Giorgio Vigolo, figura che ancora aspetta una giusta rivalutazione critica a quarant’anni dalla morte. L’autore romano si può considerare un raffinatissimo poligrafo, in virtù di un’attività variegata derivante da una gamma di interessi vasti che lo videro di volta in volta misurarsi con la scrittura in qualità di poeta, prosatore, musicologo, critico, traduttore. Sempre con risultati ragguardevoli, tant’è che non si sa se preferirlo in veste di cantore di rapsodie pervase di un classicismo febbrile e visionario, o come prosatore dall’elegante incedere che soltanto un decennio fa Bompiani cercò di rivalutare tramite il florilegio di Roma fantastica, curato da Magda Vigilante.

È perciò da salutare con interesse l’iniziativa di Andrea Gialloreto che cura, per Le Lettere, l’antologia delle Poesie 1923-1982 (pp. 248, € 18,00) attingendo in toto alla produzione lirica, e colmando una lacuna editoriale imperdonabile: si passa infatti da Conclave dei sogni, la raccolta edita da Novissima nel 1935, a La fame degli occhi, pubblicata da Florida, piccolo editore romano, nel 1982, poco prima della scomparsa dell’autore, avvenuta a quasi novanta primavere all’inizio dell’anno successivo (ma un pugno di poesie, in cui erano già presenti i motivi vigoliani della vertigine e dell’eudemonismo, solo in parte confluite in Conclave dei sogni, figurava in appendice a Canto fermo, licenziato da Formiggini nel ’31). Tra i due estremi le prove mondadoriane di Linea della vita (’49), La luce ricorda (’67), I fantasmi di pietra (’77), con la parentesi costituita da Canto del destino (Neri Pozza, ’59), oltre all’appendice postuma delle Poesie religiose e altre inedite (Aracne, 2001) e dei Lirismi (Edizioni della Cometa, ’03), quest’ultimo ignorato dal regesto per la sua acerbità giovanile di sottofondo.

La complessità di tale progetto, associata a un’indiscussa fedeltà ai propri temi, presupporrebbe un volume, sul modello dei «Meridiani», dedicato all’opera omnia in grado di offrire una visione d’insieme esauriente e di contestualizzare la diversa collocazione di parecchi testi, evidenziandone il ventaglio inesauribile delle varianti. Gialloreto, già distintosi nel campo degli studi vigoliani per Le rivelazioni della luce (Studium, 2017) e In questo mio guscio di favole (Prospero, ’18), assolve egregiamente al compito, riportando una sezione di schede espositive sottese a ogni singolo brano. La selezione si distingue, rispetto a quella operata da Marco Ariani nel 1976 con l’«Oscar» delle Poesie scelte concernente il periodo 1923-’66, per l’encomiabile tentativo di attualizzare l’opera di un poeta spesso sacrificato al canone novecentesco, essendo ignorato dalle crestomazie di Contini e Mengaldo per il suo tono prezioso, intarsiato entro rilievi araldici e ripetitivi (compare invece nei Lirici nuovi di Anceschi). Contini peraltro lo stimava e se ne occupò per «Letteratura» in un saggio confluito in Esercizî di lettura, in cui ribadisce che «il risultato più alto di Vigolo è nell’endecasillabo perpetuamente minacciato di Circe».

Manca qui qualche pietra miliare come Vicolo Scanderberg o un più ampio spettro di specimina riguardanti il momento più rappresentativo, I fantasmi di pietra, autentico gioiello dove la parola si rastrema in volute essenziali che rimandano al candore delle chiese sotto nuvole temporalesche in fermento. Questa maniera velenosa di raffigurare il reale adombra esiti claustrofobici derivanti dall’angustia verticale di carceri piranesiane affioranti dalle gore di grandi in-folio settecenteschi (viene in mente, per la stessa dedizione al tema della fine incombente, il Valeri ellittico di Calle del vento). Qui il primigenio retaggio romantico tedesco (la Weltliteratur goethiana, ma soprattutto Hölderlin di cui fu finissimo interprete) coniugato alla grande lezione simbolista scaturita da Baudelaire e Rimbaud, invisa al calligrafismo mallarmeano permeato di funambolismi criptici così caro agli ermetici (Ungaretti e Luzi in primis), si sbilancia verso approdi compositi e composti, di taglio delirante ed esaltato, in aperta antitesi con le combinazioni semantiche neo-sperimentali nonché con il coevo supporto di una koinè quotidiana inserita in un contesto ibrido quale quello sereniano.

Non convince tuttavia la scelta del curatore di riportare, dopo la parte iniziale incentrata su Conclave dei sogni, i titoli delle sezioni a discapito di quelli delle raccolte, considerato oltretutto che Linea della vita e La luce ricorda hanno un evidente impianto musivo teso a delineare l’impossibilità, rilevata da Baldacci, di un «lungo itinerario (…) fatto di frammenti» che rifiuta di «organizzarsi in “canzoniere”». D’altronde una simile eleganza non poteva che essere avversata in una temperie dominata da implicazioni scopertamente ideologiche, venendo spesso contrabbandata per estetismo (si veda l’osservazione su «mistici» ed «esoterici» coniata da Debenedetti e la condivisione di precetti reconditi con l’Onofri di «Lirica», prima che quest’ultimo si indirizzasse verso la teosofia steineriana).

Alcune sigle citate non sono presenti nella legenda bibliografica, creando un senso di spaesamento nel lettore: riportiamo ad esempio LR che dovrebbe contrassegnare la raccolta La luce ricorda, disattesa nella citata legenda, o Spettro solare che da SP diventa a tratti SPS. Questioni di lana caprina, si dirà, che nulla tolgono a un’acribia filologica che si manifesta nel continuo rimando al macrotesto, comprendente la curatela dei Sonetti belliani e l’esegesi del Genio del Belli, oltre alla summenzionata versione hölderliniana (Vigolo tradusse anche Maestro Pulce di un altro «irregolare» come Hoffmann).

La poesia di Vigolo individua paradossalmente nel taglio anacronistico delle sue più scoperte accensioni liriche la propensione a un’attualità sottesa al recupero di stilemi classici, a un antimodernismo antitetico rispetto al tecnicismo dilagante, che rivendica con forza il diritto a una dimensione trasognata, entro un groviglio di ascendenze iconiche: «Altra gioia non ebbi / che d’alberi e di nubi». Tale descensus Averno si configura attraverso una commovente dedizione, osteggiata per la sua presunta gratuità attraverso il naturale svolgersi di un percorso rigoroso, trasfigurato intorno ai motivi di una Roma barocca e spettrale, visionaria e scipionesca (ma non si dimentichino le tinte sovraccariche delle taverne di Mafai), rimirata «in cima / a delirate scale» che sembra inglobare nei suoi paesaggi vertiginosi il maleficio di una condizione esistenziale precaria e disarmante: «Io sono vissuto da lunga / epoca in questa città di rimorsi, / di colossei bruciati dal sole, / di nere chiese vendicative».

Esemplari le sezioni L’eremita di Roma e Parlo con l’eco, laddove le vicissitudini biografiche si stemperano in una simbiosi con questa «città dell’anima» che troverà in un testo epigrammatico dei Fantasmi di pietra il suo più naturale compimento: «Questa Roma, questa Roma / come l’ho amata, / come la ho posseduta / e me ne sono invasa la memoria! / Come me la sono stampata / nei sogni, fino ad averne / le stimmate / delle strade nel palmo della mano». Bertolucci rilevò un simile rapporto osmotico, precisando che si tratta della «Roma del Borromini e delle macellerie secentesche», con particolare riferimento a una composizione dell’Eremita di Roma in cui si descrivono sapientemente gli antichi vani dei macelli. E non si può non riandare con la memoria alle splendide esplorazioni in prosa compiute assecondando una flânerie – e una rêverie – tipicamente moderna che da Baudelaire rimanda a Benjamin e Walser, riconducibile soprattutto a Le notti romane (1960) e Spettro solare (’73), ma presente anche nel Cannocchiale metafisico (’82): qui il brano di apertura, intitolato Le Beatricine, costituisce un esempio di quella incantata dimensione metafisica che sembra materializzarsi in un palazzo abbandonato in cui si rievoca la vita di un convento che ospitava un ordine ereticale ispirato a Beatrice Cenci, eroina cinquecentesca già investigata da Shelley e Stendhal.