È nato prima l’uovo o la gallina? Almeno dalle Conversazioni Conviviali di Plutarco, l’interrogativo ha assunto la posa della domanda proverbiale. Il quesito, potenzialmente ottuso, coinvolge un animale che il senso comune ha eletto a paradigma naturale di mente debole e cervello poco fino. Giorgio Vallortigara rovescia lo stereotipo grazie a un volume Il pulcino di Kant (Adelphi, pp. 175,  € 20,00) la cui struttura – capitoli brevi scanditi dalle efficaci illustrazioni di Claudia Losi – ricorda Ambienti animali e Ambienti umani di J. Von Uexküll, uno dei capisaldi della tradizione etologica europea. Il rigore espositivo, coniugato a una scrittura vivace, segue il solco delle opere più conosciute di Konrad Lorenz, peraltro indicato dall’autore come un punto di riferimento.

Vallortigara mostra che la gallina non è affatto tonta. «Non esiste un animale più importante per la nostra specie», ribatte, perché con i ventidue miliardi di esemplari sparsi sul pianeta le galline «costituiscono la nostra principale fonte di proteine». Homo sapiens e pennuti sono uniti, infatti, da un lungo percorso di domesticazione, un periodo compreso tra i quattromila e gli ottomila anni. Su una cosa il vecchio adagio ha ragione: il cervello di gallina è piccolo davvero. Per intendersi: un bicchiere da cucina contiene una quantità d’acqua che corrisponde a duecento volte l’esiguo volume neuronale, appena un millilitro, di un esemplare adulto. Tuttavia, è da questo dato che il libro muove per costruire un rovesciamento sorprendente. Il pulcino è chiamato «di Kant» (non di «Locke» o di «Hume») perché mostra il carattere innato di alcuni comportamenti animali. Anche una specie relativamente elementare manifesta, infatti, «l’incorporazione nei sistemi nervosi di certe regolarità statistiche» del mondo. L’etologo italiano individua in una lunga serie di predisposizioni già presenti alla nascita quel che l’autore della Critica della ragion pura chiamava conoscenza «a priori», una griglia universale dell’esperienza.

Il caso più eclatante sta nell’«imprinting». Conclusa la schiusa delle uova, il pulcino elegge chi gli è vicino a figura materna. Nulla a che vedere con l’armonia mistica che caratterizzerebbe, secondo alcuni, il regno animale. La figura elettiva del pulcino diventa tale in quanto regolata da una fitta rete di predisposizioni che la variazione sperimentale è in grado di descrivere, oggi, in tutta la loro complessità. Di solito, il pulcino comincia a seguire sagome che somiglino a una gallina. Tuttavia, il suo «istinto imperfetto» fa sì che «in assenza di una chioccia l’imprinting si verifichi su qualsiasi oggetto si presenti alla vista dell’animale appena nato».

Il vincolo innato non opera come un set preprogrammato di istruzioni, bensì svolge un «ruolo permissivo», una serie di preferenze di apprendimento articolate in subordine. Il pulcino riconosce con maggiore prontezza la chioccia in una figura semovente, che si muova «secondo uno schema astratto che si riduce al movimento semirigido […] comune ai vertebrati». Tuttavia, in assenza di stimolazione visiva, anche la manipolazione tattile o i richiami sonori tipici della specie accendono il comportamento istintivo.

Il libro illustra qualità sorprendenti di questo processo anche dal punto di vista temporale. L’imprinting è una predisposizione immediata all’apprendimento che si manifesta all’interno di una ristretta finestra. Lorenz immaginava un lasso di tempo ridottissimo
(qualche ora) e rigido perché non in grado di riaprirsi in fasi successive dello sviluppo. Di recente è stato osservato, invece, che la somministrazione di un particolare ormone tiroideo consente di prolungare il periodo critico entro il quale il pulcino sceglie gli oggetti di elezione. Questo «istinto imperfetto» si configura, in altri termini, come un freno alla plasticità cerebrale. La mancanza completa di vie innate di orientamento porterebbe i pulcini a perdere vie di accesso immediato al contatto sociale e alla protezione da parte dei conspecifici. D’altro canto, la variabilità delle situazioni di vita (il cambiamento di aspetto della chioccia o del predatore secondo luminosità, prospettiva, direzione) rende necessaria una qualche capacità plastica di adattamento al nuovo. A questo proposito, la serie di esperimenti che conclude il testo è esemplare. I pulcini, a dispetto del loro «cervello da gallina», tengono conto della numerosità degli oggetti che incontrano. Pur non essendo dotate di vere e proprie capacità di calcolo, le galline percepiscono, però, non solo colori e forme ma anche relazioni quantitative. Quando, in una prova sperimentale, dietro uno schermo posto alla sinistra dell’animale si rifugiano quattro oggetti d’imprinting e dietro lo schermo posto alla sua destra se ne nasconde uno solo, il pulcino tende a dirigersi verso il primo. Se, però, assiste allo spostamento di due oggetti da sinistra a destra, la preferenza comportamentale del pennuto finisce per spostarsi in quella direzione, verso uno stimolo che si presume sia quantitativamente maggiore.

Forse non sarà facile utilizzare tout court i risultati di queste ricerche per comprendere il comportamento dei neonati o dei sapiens. Di certo, la possibilità di riattivare predisposizioni all’apprendimento che si credevano inscalfibili apre nuovi scenari per lo studio della plasticità tipica delle facoltà umane, sia infantili che adulte.