La sera del 21 maggio è morto Giorgio Mori, classe 1923, partigiano di Carrara, uno degli ultimi combattenti sulla Linea Gotica occidentale. Giorgio era nato in una famiglia in cui si respiravano idee antifasciste, il nonno era un cavatore di simpatie anarchiche e repubblicane e lo zio era un ferroviere capolega, che venne processato dal Tribunale speciale e mandato al confino. Un ambiente refrattario al fascismo quando non apertamente ostile: Giorgio ha spesso ricordato come la sua educazione politica fosse passata anche da quelle serate in cui accompagnava il nonno in osteria, dove si ritrovavano i cavatori sfiniti dal lavoro (molti dei quali erano stati arditi del popolo che avevano preso parte ai Fatti di Sarzana) e in cui sentiva parlare sottovoce di Francisco Ferrer e di Antonio Gramsci. Serate annaffiate dal vino, in cui i vecchi compagni si abbandonavano – sfidando i manganelli delle squadracce fasciste – a un vasto repertorio di canti ribelli, primo tra tutti l’amatissimo Pietro Gori. Giorgio prende mano a mano coscienza di una sua particolare insofferenza all’autoritarismo del premilitare e agli aspetti più fanfareschi del regime. La sua ribellione è ancora tutta interna, un fuoco sotto la cenere che aspetta solo che la storia gli dia un’occasione.

Nel 1942 a diciannove anni è arruolato in artiglieria e, dopo soli tre mesi di addestramento, viene «sbattuto al fronte dalla sera alla mattina». Li portano in piroscafo a Tobruk, dove insieme ai suoi commilitoni vive la drammatica ritirata dell’esercito italiano successiva alla battaglia di El Alamein. Rientra fortunosamente in Italia ma è costretto ad arruolarsi nel Reggimento Artiglieria Paracadutisti “Nembo” e spedito nuovamente sul fronte, questa volta in Sicilia a contrastare lo sbarco alleato. L’8 settembre 1943 lo coglie a Battipaglia e Giorgio toglie la divisa militare per ritornare nella sua Carrara attraverso gli Appennini («viaggiavamo di notte e senza la solidarietà delle popolazioni montane ci avrebbero catturati»). A casa non può fermarsi che per poco, perché i carabinieri e i fascisti danno la caccia ai renitenti per arruolarli nella Rsi e quindi si dà alla macchia.

Si arruola tra le fila della Resistenza in Garfagnana e nelle Alpi Apuane, prima con una formazione di Giustizia e Libertà e successivamente entra a far parte del leggendario gruppo dei gappisti carraresi, la Formazione “Ulivi”, poi diventata Brigata Garibaldi “Gino Menconi”. Qui Giorgio si distingue per il coraggio e l’altruismo, sempre in prima linea nelle azioni: anche grazie alla sua esperienza militare diventa un punto di riferimento per i più giovani che salgono ai monti. Tuttavia la lotta partigiana è un’esperienza totalmente diversa dalle precedenti, diventa una palestra di democrazia: «non esistevano distinzioni gerarchiche, non c’erano gradi, l’alzabandiera, la mensa ufficiali, si parlava di politica, si metteva in pratica un comunismo dei beni e ci si divideva tutto senza eccezioni». Giorgio aderisce al Partito Comunista clandestino nel 1944 e rimarrà comunista fino alla fine dei suoi giorni: ingraiano con venature libertarie, negli ultimi anni ha sempre sostenuto i vari tentativi di rifondare una sinistra di classe in Italia.

Nel dopoguerra Giorgio sposerà Cesira Tosi, che aveva conosciuto nel fuoco della battaglia, infatti “Cesarina”, che oggi ha 98 anni, è una delle partigiane della rivolta di Piazza delle Erbe del 7 luglio 1944. La loro è anche una grande storia d’amore, hanno passato un’intera vita sempre insieme. Anche quando furono costretti a emigrare in Belgio – in seguito alla repressione anti-partigiana nelle fabbriche Giorgio venne licenziato dallo stabilimento chimico Montecatini. Il lavoro nelle miniere di carbone era «un’esperienza bestiale», Giorgio lo ricorda così: «ero diventato il numero 199, per loro eravamo solo dei numeri. Si lavorava a cottimo dieci ore al giorno senza sicurezza, la parola d’ordine era “arrange-toi” e io contavo per tre tonnellate di carbone al mese… l’Italia l’abbiamo ricostruita anche con quel carbone lì. All’inizio eravamo in una miniera a taglia bassa, io lavoravo sempre da sdraiato, avevo i calli dappertutto, mi ricordo che quando accarezzavo mio figlio lui si tirava indietro perché con le mie mani gli facevo male». Nel 1956 farà parte delle squadre di soccorso intervenute a Marcinelle: «Il recupero fu penoso, scendemmo in una galleria a 750 metri, che avevano allagata per domare l’incendio, e ci trovammo ad operare in una melma nera in mezzo ai resti di quei corpi dilaniati. Ho vomitato per venticinque giorni da quello che ho respirato e dall’odore che non si poteva dimenticare».

Dopo un quindicennio di lavoro in miniera e l’inevitabile silicosi, Giorgio rientra a Carrara e grazie alle assunzioni obbligatorie viene assunto prima come bidello, poi nell’Ufficio Casa del suo comune.

Negli ultimi anni Giorgio si è dedicato interamente all’Anpi, con un’incessante attività di promozione della memoria della Resistenza e dei valori dell’antifascismo, in centinaia di iniziative pubbliche, incontrando migliaia di studenti. Giorgio Mori ha affascinato diverse generazioni di antifascisti, diventando un indiscusso punto di riferimento, per una comunità ampia e trasversale alle varie appartenenze e identità della sua città: egualitaria, ribelle, libertaria, ma anche repubblicana e persino moderata. Non godeva soltanto di quel rispetto di cui un’intera città investe certe figure imponenti, ma era amato, di un amore autentico: sentirlo parlare (mentre raccontava la sua vita piena di avventura, o quando rifletteva sull’attualità politica) costituiva un’esperienza umana e intellettuale di altissimo valore. Giorgio aveva sempre la parola giusta, gentile o sferzante (faceva suo il motto “la pace tra gli oppressi la guerra agli oppressori”) esprimeva sempre un punto di vista originale, spiazzante e pieno di intelligenza, aveva l’umanità riconoscente di chi ha dedicato tutta la sua vita a una ribellione che aveva ragioni tanto esistenziali quanto storiche e che vedeva negli ultimi – l’”umanità gemente” che deve diventare “futura umanità” – la sola bussola di una lotta che non conosceva incertezze. Aveva lo spirito del ribelle indomito: bastava vederlo partecipare a una manifestazione o a un presidio e si notava subito quel suo inconfondibile camminare per la città «con il passo di chi è stato in montagna». Anche a cent’anni non aveva perso l’agilità nei gesti e tutto questo dava l’impressione di una freschezza mentale prima ancora che fisica, alimentando così la leggenda del partigiano di indistruttibile tempra.

Un giorno di qualche anno fa, al Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo – dove Giorgio Mori andava spesso ad incontrare le scuole in visite organizzate dal collettivo Archivi della Resistenza – una studentessa, rimasta molto colpita dal racconto di una vita così avventurosa ma anche piena di sacrifici, gli chiese: «Dove ha avuto più sete?» La ragazza con questa domanda si riferiva almeno a tre episodi del racconto di Giorgio: la disperata ritirata nel deserto della Cirenaica in cui i soldati italiani, abbandonati dai tedeschi, dovevano contrastare l’avanzata inglese; al celebre assedio alle cave di marmo di Fantiscritti che i tedeschi fecero durare diversi giorni, nel tentativo di stanare i partigiani rimasti senza provviste; e ancora al caldo infernale che lo affliggeva nelle miniere del Belgio a 800 metri di profondità. La risposta di Giorgio fu memorabile: «Non so dirti dove ho sofferto di più la sete, ma posso dirti con certezza che è la sete di libertà quella che non mi ha mai abbandonato».

Forse più che nella straordinarietà della sua vicenda umana è in questa sua seducente capacità comunicativa che va ricondotto il sentimento di dolore e riconoscenza che ha pervaso la città di Carrara nelle ore successive alla morte di un centenario, non uno qualunque, ma un centenario assetato di liberà. Al Cimitero di Turigliano, dove sono seppelliti i suoi compagni partigiani, . Giorgio arriverà mercoledì 24 maggio alle ore 15. Lì si riunirà una comunità variegata con le sue belle bandiere, per un ultimo saluto, per pensare una volta tanto a ciò che unisce più che a ciò che divide. Poi con più calma quando il dolore sarà un po’ passato, ci sarà modo anche di continuare a mettere a frutto il suo insegnamento e a non smettere di seminare contro la malannata, nella speranza che prima o poi germoglierà un altro mondo possibile e necessario. Ecco il suo più grande insegnamento, non smettere mai di seminare.