A due anni dall’ultimo lavoro, Non tutto è dei corpi, Giorgio Luzzi torna con una nuova raccolta, Forme della notte, (Carabba, pp. 121, euro 14,00), dove, se «forme» include sia i temi che la forma poetica, il secondo termine rende ora esplicita la meditazione sull’appressamento della morte. La genesi ispirativa si concentra ancor più sulla spina esistenziale dell’io poetante, cui per più di un componimento fa da specchio la recente scomparsa di Bruno, amico conterraneo, già direttore del museo di Tirano, mentre qua e là la pagina torna sul torpore delle sette serali come a oscura vigilia.

La contiguità con la precedente raccolta si fa forse più evidente nel tessuto ritmico. Qui, come lì, pur sottoposti alla consueta morsura di infrazioni, sbreghi, echi citazionali – tipici di una sensibilità novecentesca –, assiepano il dettato classiche alternanze di endecasillabi e settenari, ottocenteschi settenari doppi, ottonari, novenari, fino al sonetto mimetizzato dall’assenza di rime regolari in Che scrivo? Assai frequenti poi sono le rime ravvicinate, regolari e interne, per quanto anch’esse, come la misura ritmica, ostacolate alla percezione facile.

LA POESIA DI LUZZI vive da sempre in questo conflitto tra la tentazione della sensualità della rima e dell’allitterazione, la confidenza rasserenante propria dei versi regolari della tradizione e invece la necessità tutta razionale e, aggiungeremmo, morale del suo rifiuto, da cui un’ampia fenomenologia che va dalla vasta presenza metalinguistica, alla predilezione dell’analogia, all’impiego frequente del neologismo e del plurilinguismo, fino al gusto delle giunzioni inusitate, alla parodia e all’ironia.

Tale largo ricorso è l’incarnazione di uno scarto oppositivo rispetto all’energia dell’altra spinta. C’è, insomma, nell’amore intellettualistico – piuttosto che sensuale – per la lingua, una mossa difensiva verso il concedersi alla vita, che in queste ultime due raccolte fa qua e là filtrare la pressione della nostalgia, il dolore della fine, l’amarezza del rimpianto e della delusione. Per questo, ora, l’invenzione poetica sembra inclinare maggiormente alla dicibilità, al cantabile. La novità delle Forme della notte, quasi in contrappeso alla maggiore concentrazione entro lo spazio esistenziale, si trova nell’attivazione più insistita di un’altra potenzialità della cadenza di misure tradizionali: il gioco divertito, la coloritura ironica, modo, anche questo, di piegare la resa alla sensualità del cantabile verso una funzione difensiva.

Così non mancano guizzi scherzosi e sorprendenti come «ammodato / di camicie emblematiche», o parodie sentenziose di proverbi, «Chi morirà vedrà», oppure acutezze derivate da frasi codificate dalla cronaca, come quella tragica del volontario italiano ucciso in Palestina, Vittorio Arrigoni, ben conosciuta dai lettori del manifesto, «restiamo umani», esposta addirittura nel titolo: Restiamo quieti.

CONTIGUA a questa casistica è la diffusa ricerca, anch’essa sentenziosa, della clausola rimica in chiusura di componimento, ora baciata come nel doppio settenario «un luogo che si accenda con trepido rigore / nel rispetto oscillante dei riti delle ore», ora a breve distanza: «Dici le sette e non hai torto Vai / stai per scadere in un égout di noia / Tanto il tuo mondo non rincasa mai».

Nell’ultima occorrenza compare l’omissione, grammaticalizzata nelle ultime raccolte, di ogni segno interpuntivo, frutto evidente della controspinta di spiazzamento e presa di distanza. Inoltre la chiusa, ove s’addensano analogie, plurilinguismo, allitterazioni aspre, fa cadere in enjambement un’altra modalità della stessa funzione, ossia il nesso paronomastico, «Vai / stai», abbastanza diffuso: «Tra flutti e frutti», «virò la sua vera», «esile ed esule», ecc.
Non mancano, infine, i ricordati omaggi agli autori, come nel caso di Zanzotto, «Poi comparve l’Andrea de La Beltà», e i consueti echi, espliciti o frutto di memoria involontaria, dal celebre Xenion montaliano («Tutto con l’innocenza di chi crede /…/ la via del non si vede»), alla celeberrima conclusione di Francesca nel quinto dell’Inferno: «Verrà un giorno che più /non scriveremo avanti».