Cultura

Giorgio Galli, elogio di un eccentrico enciclopedismo

Giorgio Galli, elogio di un eccentrico enciclopedismoGiorgio Galli / foto di Alberto Cristofari

NOVECENTO A tre anni dalla morte del politologo, un volume collettaneo a cura di Maria Grazia Meriggi, edito da Biblion, ne traccia il profilo attraverso undici saggi e quattro «ricordi» che ne ricostruiscono l'originale traiettoria. Denunciò la sproporzione e l’asimmetria tra «potere dei governi degli Stati e potere trasversale dell’economia» e segnalò lo svuotamento della rappresentanza

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 10 dicembre 2023

Scrivere di Giorgio Galli, oramai a tre anni dalla sua scomparsa, non è comunque un esercizio agevole. La sua figura di politologo, nonché di storico (ma la prima identità professionale faceva premio su tutto il resto), rimane per molti aspetti ineguagliata. Benché con il suo spumeggiante vitalismo intellettuale, abbia fatto assai spesso strame di accademismi così come anche di ritualismi intellettuali, soprattutto laddove entrambi si rivelavano depositari, in qualche modo, di obblighi, dipendenze e osservanze che stavano comunque stretti a lui stesso.
Fin troppo facile affermare, tuttavia, che fosse un libero battitore, una specie di eterodosso, tale poiché portava con sé lo spirito dell’utopia culturale e della panoplia intellettuale. Semmai il suo magistero culturale si è esercitato sulla capacità di contaminare ambiti che, altrimenti, mai avrebbero interloquito e interagito tra di loro: dalla storia delle organizzazioni politiche, e di rappresentanza, del movimento operaio, a quelle della «forma partito», soprattutto a partire dal 1945 in poi; dall’indagine sugli assetti politici (e istituzionali) determinatisi nelle nostre società dal secondo dopoguerra alla comprensione della coesistenza, al medesimo tempo, di razionalità tra di loro non solo distinte ma, anche e soprattutto, concorrenti. E così via.

ANCHE PER UNA TALE ragione, a tutt’oggi il suo profilo rimane (e per sempre rimarrà) quello di uno studioso che sfugge alle gabbie sia interpretative che, soprattutto, di appartenenza. Se si deve trovare qualche analogia e omologia, posta anche l’ascrizione generazionale, allora questa rimanda, quanto meno inizialmente, a Giovanni Sartori, con il quale intrattenne diverse collaborazioni e scambi. Tuttavia, Galli non era per nulla un liberale al pari, invece, del primo. Poiché scalpitava quando doveva ricondurre il suo bisogno di conoscenza dinanzi ai recinti identitari e, con essi, di una qualche condiscendenza di principio. Con Sartori, infatti, collaborò, tuttavia attraverso un percorso per nulla lineare. Infine, se ne differenziò, posto che il liberalismo del primo difficilmente si attagliava alla sua curiosità, per più tratti, culturalmente e ontologicamente anarchica.
Difficile, non a caso, definire una volta per sempre ciò che Galli fosse, ammesso che occorra, in questo come in altri casi, il rimando ad una qualche etichetta. Semmai, si può parlare di lui, riferendosi alle vulgate politiche del Novecento, come di un socialista libertario. Qualcosa, per capirci, che coniuga – nel suo costituire autentica terra di mezzo – la riflessione sulla necessità di riconoscersi nell’evoluzione delle società (e con esse, pertanto, del ruolo crescente delle classi subalterne) – al pari del rapporto tra la visibilità, la tangibilità e il rispetto degli ordinamenti istituzionali. Tutto ciò insieme al bisogno, manifestato dai molti, di indagare sul loro ripararsi, soprattutto nei momenti di grande crisi, in costruzioni sospese tra l’irrazionalismo e il rigetto della mera logica utilitarista.

IN QUESTO GROVIGLIO di presupposti come anche di conseguenze, a distanza di poco tempo dalla sua scomparsa, si adopera nel suo insieme il volume collettaneo, a cura di Maria Grazia Meriggi, Per Giorgio Galli. Saggi e ricordi (Biblion edizioni, pp. 218, euro 20). L’opera collettanea, che vanta undici saggi e quattro «ricordi», ricostruisce la traiettoria del biografato. Come tale, trattandosi di un esercizio polifonico, risulta essere molto utile. Soprattutto a quanti, invece, vorrebbero ricordare, e quindi risolvere, l’enciclopedica figura di Giorgio Galli che, come tale, ha attraversato la politologia del secondo Novecento, nel suo essere l’esclusivo ritratto di un eccentrico e inclassificabile studioso, senz’altro inserito nell’aristocratica Accademia italiana ma, in fondo, ad essa sostanzialmente poco o nulla proclive. Beninteso, non se ne sta facendo in queste righe, un ritratto di comodo, del tutto apologetico, quello che semmai si concede a quanti sono nel mentre scomparsi. Semmai ci si interroga sul lascito della sua opera di studioso e intellettuale. La quale, per nulla è rileggibile e inquadrabile dentro le soffocanti categorie che, di prassi, si dedicano ai sacerdoti del sapere così come ai loro interessati iconoclasti.

SIAMO in un diverso orizzonte. Giorgio Galli, semmai, era preso da molte passioni, rivelandosi, all’estremo limite di esse, quasi autofagico, ossia capace di divorare e disintegrare le sue stesse riflessioni, in una sorta di demiurgico bisogno di dare spirito, vita e corpo a intuizioni che, a tutt’oggi, rimangono ancora per buona parte incompiute. Tutti i suoi lavori sulla razionalità «altra», quella che contrasta con l’utilitarismo che si afferma con la rivoluzione industriale, per quindi arrivare a noi, si inscrive in questo indirizzo di fondo. Galli non ha mai cercato interpretazioni unidimensionali, quindi monocausali. Men che meno, dal momento in cui ha ragionato sulla stregoneria, in età moderna, così come sul cosiddetto «nazismo magico», oltre che a molto altro, si è pertanto adoperato per giustificare alcunché. Semmai, si è interrogato sulla coesistenza, nel tempo che noi contrassegniamo come «modernità», di diversi stili di coerenza, quindi di alternative modalità di lettura del presente.

MAI È STATO tentato di accreditare, in una sorta di lettura capovolta, altrimenti ad oggi molto diffusa, la plausibilità di ciò che ha sempre inteso come consolanti degenerazioni. In alcun modo ha inteso sostituire la razionalità dominante con quelle subalterne. Non era per nulla convinto che i vinti fossero migliori dei vincitori. Tuttavia – ed è questo il vero punto fondamentale, in sé quindi dirimente – ha compreso come, nel momento in cui l’utilitarismo capitalista (oggi diremmo liberista) entrava in crisi, vi si sostituisse ad esso, non solo come mera compensazione ma anche come nuovo orizzonte collettivo, un irrazionalismo di massa.
I suoi lavori sull’immaginario totalitario del Novecento, si inscrivono in una tale logica interpretativa. Forse, non a caso, è stato da molti incompreso, poiché segnalava come nei trapassi storici del nostro tempo a risultare vincente non fosse lo spirito dell’utopia egualitaria bensì il bisogno di una distopia razzista. Ancora una volta, a volere dire che, nella nebbia del presente, ciò che ritorna non è mai il rimando ad una solidarietà collettiva bensì il bisogno di racchiudersi in gruppo escludente che si definisce in termini tanto ancestrali quanto storicamente fallaci. In fondo, le sue riflessioni sull’esoterismo, si inscrivono anche in questa direzione di marcia. I saggi compresi nel libro testimoniano di ciò, così come di molto altro. Ci restituiscono non solo la traiettoria di uno studioso, e intellettuale, ma anche di un’età che sta alle nostre immediate spalle. Per la quale, siamo disposti a consegnarci, in alcuni casi, ad una sorta di malinconia non risarcibile, tale poiché basata sul senso di espropriazione. Che è poi quella condizione che deriva dal bisogno di rimandarsi al passato per denunciare l’incomprensibilità del presente che viviamo. Ossia, la nostra incapacità di capirlo e interpretarlo.
Giorgio Galli rimarrà, sempre e comunque, come il politologo che, per lungo tempo, ha lavorato sulle logiche e sulle interne costituzioni dei partiti di massa. Così come del sistema istituzionale affermatosi, progressivamente, dal 1945 in poi, che interagiva con tali culture politiche e sociali. Dopo di che, proprio perché ne è stato, al medesimo tempo, cronista e diagnosta, la sua lettura di ciò che fu rimane essenziale per cercare di comprendere ciò che, nel mentre, è subentrato. Quanto meno dagli anni Ottanta in poi.

COME RICORDANO alcuni degli autori del volume collettaneo, Galli denunciò ben presto la sproporzione e l’asimmetria tra «potere dei governi degli Stati e potere trasversale dell’economia», quindi, con esse, «lo svuotamento della rappresentanza, la conseguente crisi della democrazia rappresentativa». In fondo, il suo essere socialista senza partito né chiesa, quindi senza sacerdoti né officianti, sospeso tra il lascito della Seconda Internazionale e l’irrisolta testimonianza della Quarta, lo ha reso tanto protagonista quanto osservatore, a distanza di sicurezza, di ciò che spesso vedeva anche come una sorta di proiezione di sé stesso, delle sue sensibilità, della sua persona.

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