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Giorgio Falco, tra incendiari e pubblico nient’altro che un fiammifero

Giorgio Falco, tra incendiari e pubblico nient’altro che un fiammiferoMimmo Paladino, «Senza titolo»

Scrittori italiani «Flashover, Incendio a Venezia», Einaudi

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 22 novembre 2020

29 gennaio 1996, Venezia, la Fenice è incendiata. Sono stati – accerterà l’inchiesta – due giovani elettricisti impegnati nella ristrutturazione del teatro, Enrico Carella e Massimiliano Marchetti; non sarebbero riusciti – inesorabilmente in ritardo con i lavori – a pagare la penale prevista dall’appalto. Ingabbiate l’una nell’altra, come in controtempo, come controvoglia, le figure degli incendiari sono se stesse e le vittime di se stesse, strette in gabbie saldate al di sopra della loro consapevolezza: il mercato del lavoro che sta ammazzando il lavoro, la corsa a indebitarsi per il macchinone da ostensione, l’ansia di guadagno, il desiderio che gli altri riconoscano in te qualcosa di più di quel che sei. Gli incendiari scontano, dunque, tra gli altri, quella fine del millennio cieca e distorta, che è poi l’inizio del nostro tempo.

Un narratore riunisce le carte, il senso precario di un processo, le voci proiettate alla ribalta dei media: ne viene fuori Flashover Incendio a Venezia, di Giorgio Falco, con fotografie di Sabrina Ragucci (Einaudi, pp. 194, € 19,00). Flashover è lo sviluppo completo dell’incendio, l’opera del fuoco portata a termine, che prevede fiamme indistinguibili l’una dall’altra, fino a diventare un muro uniforme, che si mangia tutto.

Allegoria credibile di un tempo presente, la contingenza nella quale si muovono i due elettricisti incendiari si estende oltre le loro vite, sullo sfondo di una Venezia della cui bellezza fanno parte la maschera del turismo, i lievi grigiori, il placido passaggio delle supernavi da crociera in mezzo ai canali. Bruciano, insieme alle architetture della Fenice, tutte le forme della decadenza, quella lugubre, lisztiana, dannunziana, andate in fiamme non per mano di un incendio di stampo marinettiano, non in grazia di una follia sacrificale o liberatoria, ma a causa di una nuova specie di disperazione.

I vinti di questa storia – due personaggi che ricordano, per la loro mancata coincidenza con i feticci che li imprigionano, i vinti della Ballata di Rudi di Elio Pagliarani – si ritrovano stremati nella loro gabbia, senza più forze da spendere per andare oltre il presente della loro alienazione, oltre il muro del fuoco. Mimeticamente, la costruzione del libro asseconda questo muro, contro il quale pare scontrarsi: non si sa se vorrebbe esserlo, ma non è un romanzo, bensì la sua rinuncia. Parla la lingua di un profetismo inquieto e senza bibbie; lo traversano periodi tra parentesi, che ripensano l’incendio, il processo e il suo racconto.

Meglio Falco non potrebbe dire: nel tempo in cui il teatro brucia ci fa sentire, rende percettibile «il tempo dell’azione, della scrittura, della riscrittura», mentre le fotografie di Sabrina Ragucci mostrano un teatro fissato nella maschera di un sorriso immobile, che rimanda all’idea – o almeno così noi leggiamo – che a separare quelle vite di elettricisti incendiari dalle nostre non ci sia che un fiammifero.

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