Il concetto di sopravvivenza ha trovato, nel corso della storia delle idee, diverse declinazioni: nel saggio sul compito del traduttore, ad esempio, Walter Benjamin ne fa l’elemento specifico cui  è affidata la sopravvivenza delle opere, ciò che permette il loro procedere nella vita al di là di ogni singola esistenza. Nella teoria evolutiva di Darwin, invece, la sopravvivenza è connessa all’adattamento, ovvero alla conservazione dei tratti vantaggiosi e alla distruzione di quelli nocivi nella selezione del più adatto.

Non riducibile, pur senza esservi estraneo, alla dimensione dell’ulteriorità, né a quello dell’adattamento, Il paradosso della sopravvivenza che dà il titolo all’ultimo romanzo di Giorgio Falco (Einaudi, pp.256, € 20,00) disegna una sorta di fenomenologia che coincide, per molti versi, con  la storia di un personaggio – Fede, ovvero Federico Furlan – in cui vive l’emblema del non adatto. Attraverso una tecnica narrativa straordinariamente raffinata, che alterna avvicinamenti e campi lunghi a scandire tanto la cronologia esistenziale dei personaggi quanto le diverse forme di temporalità, viene disegnata la parabola di Fede, dalla nascita fino alla maturità, che non ha connotazioni specifiche se non quella di essere un «ciccione». Fede è talmente grasso che non sa nemmeno quanto pesi: la bilancia del medico di Pratonovo, paese di montagna della Val Fiori dove l’uomo vive, ha una portata massima di 150 chilogrammi e ogni volta che lui vi si pesa arriva alla stanghetta e lì si ferma senza che si sappia di quanto ecceda. Non perciò, tuttavia, Fede resta estraneo alla vita che lo circonda; piuttosto la affronta da una condizione liminare, dove il dentro e il fuori si confondono, determinando il genere peculiare di sopravvivenza che Fede letteralmente incarna. Strutturalmente inadatto alla vita, l’uomo e lo è a maggior ragione  in un’epoca dove la fitness è diventata un imperativo morale, un ethos sociale che innerva tutte le politiche dell’esistenza. E tuttavia Fede sopravvive, non malgrado ma proprio in virtù, pare, del suo essere inadatto. Il suo paradosso viene così enunciato dal medico curante: «secondo questa teoria, ciò che ci uccide ci protegge, almeno in una prima fase, per eternizzare non certo la vita, quanto la sopravvivenza, come se sopravvivenza e vita fossero scisse».

La specifica declinazione della sopravvivenza di cui tratta il romanzo di Falco non allude tanto a una vita ulteriore, né a una lotta vincente contro la possibilità di perire, quanto a un modo di vivere la vita come se essa fosse un’entità estranea al suo soggetto.

Il  cibo di cui Fede si ingozza  rappresenta,  per lui, la vita e ne è il surrogato. Lo ha capito la ragazza ricca, magra, quasi anoressica, da cui Fede è attratto, alla quale si sottomette e dalla quale fuggirà, nel tentativo di cambiare, di non contentarsi della sopravvivenza. Nei pensieri della ragazza, il cui nome è Giulia, proprio il fatto che ingozzandosi Fede rifiuti la vita determina la possibilità, per lei, di disporne liberamente. Ma in realtà, l’atteggiamento di Fede più che un rifiuto è – ciò che dà una ulteriore connotazione al senso della sua sopravvivenza– una sorta di sosta nell’interregno tra la vita e la morte.

La sua condizione è  condivisa con altri sopravvissuti che si incontrano nel romanzo: per esempio, l’unico superstite al terribile incidente alla funivia di Pratonovo. Frutto di un caso, la sopravvivenza di questo uomo, che tuttavia non è nemmeno più propriamente vivo, gli porterà in dote una sorta di colpa e insieme l’annientamento di qualsiasi possibilità di senso. C’è poi il caso di Sergio Verner, il macchinista della funivia, che aveva agito come gli avevano detto, e pur essendo solo l’ultimo dente di un ingranaggio regolato altrove, è l’unico a pagare. Una volta uscito dal carcere Verner sopravvive grazie agli aiuti della parrocchia dove va a fare le pulizie in attesa che il giorno finisca e ne inizi un altro.

Per il tramite di questa fenomenologia della sopravvivenza disegnata da Falco nel suo romanzo, ciò che resta della vita si presta a sostituirne la piena realizzazione, in un tempo in cui il rapporto con il reale prende forme parossistiche: Fede si ritrova, per esempio, a dover taggare le categorie dei video porno senza mai scendere sotto la soglia dei cinquanta filmati all’ora, il che comporta la sistematica prevalenza del contenitore sul contenuto, e la normalizzazione di ogni ribellione. È un tempo, questo, in cui conta solo sopravvivere.

E proprio il fatto che Fede sia «fuori del tempo» consente a noi lettori che lo seguiamo di mettere a fuoco quella dimensione temporale nella quale siamo immersi e che perciò è così difficile per noi distinguere.