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Giorgio Caproni, nell’esperienza viva di un «paese guasto»

Giorgio Caproni, nell’esperienza viva di un «paese guasto»

Esami di maturità Per la prova di Italiano, i «Versicoli quasi ecologici» di uno dei più grandi poeti del secondo Novecento

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 22 giugno 2017

C’è un fuoco ottico nei tormentati Versicoli di quest’ultimo, impensierito Caproni ecologico; un sintagma arcaico e modernissimo che salta agli occhi come un punto di fuga decentrato: «paese guasto». A noialtri testimoni della crisi permanente, del disservizio insanabile, delle giunte e dei governi corrotti o incapaci (se non corrotti e incapaci a un tempo), questo paese senza maiuscola suona subito familiare, guasto come è eternamente guasto un bagno a scuola, un treno della metro, un vecchio inamovibile SUV dalla batteria esausta multato in doppia fila.

Anche a chi leggeva questa poesia sull’«Unità» nell’agosto del 1988, alla vigilia del crollo del muro e della prima repubblica, il «paese guasto» doveva sembrare immediatamente l’Italia storicamente più prossima delle cronache. Eppure ‘guasto’ è una parola dalle strane radici, poco italiana in realtà, sonoramente anomala: il suffisso gu- (di ‘guerra’ ad esempio, o di ‘guardia’) denuncia sempre, nella nostra lingua, l’indurimento di un’influenza germanica. Per accordare questa parola un po’ bastarda a ‘waste’, quella inglese che Caproni stesso ci addita attraverso la lampante rima interna ed etimologica con ‘vasto’, non serve tuttavia un manuale di grammatica storica. Basta pensare al titolo del più influente capolavoro del modernismo poetico, quel Waste Land che T. S. Eliot d’altronde, con buona pace della pur splendida traduzione italiana di Mario Praz (La terra desolata), prese di peso dalla Divina commedia.

Nell’Inferno il paese guasto è la culla decaduta della civiltà – «In mezzo al mar siede un paese guasto» dice Virgilio «che s’appella Creta, / sotto ‘l cui rege fu già ‘l mondo casto» – l’isola in rovina un tempo governata da Saturno che custodisce, nelle viscere del monte Ida, il titanico veglio che alimenta i fiumi confluiti nel ghiaccio di Cocito con le sue lacrime.
Quella montagna «che già fu lieta / d’acqua e di fronde» è ora «diserta come cosa vieta», desolata appunto, come la terra di Caproni che «potrebbe tornare a esser bella, / scomparso l’uomo». La stratigrafia di civiltà sempre meno nobili rappresentata allegoricamente dal colosso si specchia in quella delle angosce di decadenza connesse dal ritorno del guasto/waste: quella medievale di Dante, radicata nell’immaginario biblico, quella moderna e modernista di Eliot, quella ecologica del poeta della maturità 2017: tre angosce che si incontrano, contemporanee, fuori dalla Storia.

Caproni, il raffinatissimo maestro elementare partigiano, capace di rifare Cavalcanti ricostruendo le squassate macerie di Livorno bombardata con le rime più semplici, in -are, aveva già accordato la formula nobile e immediata al preciso paesaggio scabro di Caltanissetta nel 1961, definita «terra guasta» (con le virgolette) in un diario di viaggio uscito sul giornale. E poi, proprio nell’ultima poesia di Res amissa (l’enigmatica raccolta da cui provengono anche i Versicoli quasi ecologici), si era domandato quanti innocenti nascessero ogni giorno «senza asinello né bue» nella vastità della «Terra guasta», stavolta in corsivo. Un tropo cui si addice sia il microscopio che il telescopio dunque, una realtà tanto provinciale e nazionale quanto universale, estendibile al globo; è «sempre più vasto», del resto, sempre meno contingente il paese guasto, in cui si sospira sognando una terra senza uomini.

A inquadrare quest’ultima immagine in un’ottica apocalittica da guerra fredda, come la visione di un futuro dopoguerra nucleare o da pianeta delle scimmie, si cadrebbe in fallo. L’idea è infatti già nella più amaramente comica delle Operette morali, in cui un folletto e uno gnomo ricordano a malapena la remota e quasi leggendaria età in cui gli uomini non erano ancora estinti.

Leopardi non era un antropocentrista, e molte sue bestie poetiche e filosofiche vivono prima o dopo l’antropocene, libere dal giogo umano.

Quelle dai nomi poco usati di Caproni invece, più che nei Caraibi e nel Kenya in cui le situa l’enciclopedia, vengono da pagine letterarie che mettono alla prova il nostro rapporto con l’animalità stessa. Il galagone, simpatica scimmietta notturna, è preso in prestito da un romanzetto quasi autobiografico di William Stevenson, The Bushbabies, tradotto in italiano col titolo La ragazza e il galagone: una storia di addomesticamento e ritorno alla natura ambientata nell’Africa coloniale.

Il lamantino torna invece in mente a Caproni dal romanzo di Jean Genet sulla prigionia, Miracle de la rose, in cui l’ex-abbazia convertita in carcere di Fontevrault è scolpita dal «canto di lamantino» dei detenuti. C’è chi ha creduto che le sirene che cantano nelle favole e nei poemi epici fossero state suggerite agli occhi annebbiati dei marinai soli dalle impressionanti code cetacee dei sirenidi (i dugonghi, le ritine di Steller e, appunto, i lamantini) intraviste tra i vapori dell’Atlantico dai ponti delle navi di lungo corso.
Come sarebbero diverse l’Odissea e le Argonautiche se la curiosità degli avventurieri avesse trovato, all’origine dell’ostinato richiamo ipnotico, non infide ammaliatrici antropomorfe ma gli amichevoli erbivori marini che, nel corso dell’evoluzione dei mammiferi, preferirono tornare nelle acque abbandonandoci sulla terra guasta.

Il canto animale e umano che Genet associa al dolore dei reclusi, come il belato della celeberrima capra semita di Saba – poeta carissimo a Caproni – ci affratella ai misteriosi trichechidi che inquietarono Colombo, deluso dall’aspetto un po’ maschile delle donne acquatiche avvistate solcando l’oceano.

Ma basta con le sofisticherie. Caproni, uno dei più grandi poeti del secondo Novecento europeo, è anche uno dei più elegantemente accessibili: un autore musicale, che colpisce subito, «fine e popolare» per rubargli una formula fulminante. C’è bisogno, per commentare i suoi Versicoli quasi ecologici, di conoscere le diverse poetiche che ha attraversato, di compararlo a Zanzotto e Sereni magari, o di inoltrarsi nella selva attualissima dell’ecocritica, degli animal studies, della critica postumana? Io non credo, ed è per questo che la scelta del ministero – sorvolando senza trombonerie sull’ironia rituale di twitter, sullo sgomento delle mamme che suggerivano di ripassare Pirandello perché nato 150 anni fa, persino sul titolo di «più bestemmiato» schiaffato sulla pagina wiki  – mi pare miracolosa.

È quasi più facile scrivere di questa poesia, nell’esperienza vivissima e presente di questo «paese guasto» grande come il mondo, senza l’ingombro dei pochi brani di manuale che, sugli autori del recente passato, si possono realisticamente affrontare in classe. Questa poesia, così facile da commentare nei suoi suoni, nelle sue trasparenti figure e nel suo disperato sospiro antico e attuale, basta a sé stessa. La critica da muovere a chi sceglie le tracce è solo una: a quando un testo scritto da una donna?

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