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Giorgio Caproni, fantasia e dolcezza: un maestro sensibile

Giorgio Caproni, fantasia e dolcezza: un maestro sensibileRegistro di classe del maestro elementare Giorgio Caproni

Novecento italiano Il «secondo mestiere» del poeta livornese era una profonda e fedele vocazione educativa: come tale si rivela nella trascrizione dei «Registri di classe», a cura di Nina Quarenghi, per Garzanti

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

E’ il maggio 1963 e nel registro della scuola elementare «Francesco Crispi», sita nel quartiere Monteverde a Roma, il maestro scrive: «Gli anni mi pesano già. La scuola “logora”. Arrivo a casa sfinito. Ma con tutto questo, amo la scuola, e chissà se saprei abbandonarla davvero, come tante volte mi sono proposto di fare». È un docente un po’ esistenzialista, incapace di usare la bacchetta, assai elegante, con «un tratto umano completamente diverso» e una didattica tutta sua, amatissimo dai piccoli studenti: si chiama Giorgio Caproni. Il «secondo mestiere» del poeta livornese è ora racchiuso nel volume Registri di classe (a cura di Nina Quarenghi, Garzanti «I Libri della Spiga», pp. 336, € 24,00), viva testimonianza di un lavoro attento e scrupoloso che va dal 1935 al 1973.

«Caproni iniziò a insegnare – osserva Quarenghi nell’introduzione – all’età di ventitré anni “per caso”, come egli stesso era solito dire. Non aveva compiuto studi magistrali, essendo avviato alla carriera di compositore e violinista, ma, abbandonata drasticamente questa strada all’età di diciotto anni, decise di prendere il diploma magistrale da privatista e di fare il concorso per diventare maestro elementare. (…) Durante gli anni di insegnamento Caproni dovette compilare, come tutti i suoi colleghi, i registri di classe, inserendo i dati degli alunni e le relazioni del suo lavoro con loro. I registri erano passibili di controllo da parte dei superiori e venivano riconsegnati alla fine dell’anno (…) per essere conservati nell’archivio della scuola. La sua voce di maestro si trova dunque chiusa, insieme a mille altre voci, nei fascicoli che si sono accumulati negli anni sugli scaffali polverosi degli istituti in cui insegnò».

Nel 1935 prestò servizio a Rovegno nell’Alta Val Trebbia e poi ad Arenzano, finché nell’autunno ’38 vinse il concorso magistrale a Roma e andò a vivere con la famiglia nella capitale: gli fu assegnata la cattedra presso la scuola «Giovanni Pascoli», a sud di Trastevere e di Testaccio. Poeta già affermato (erano uscite Come un’allegoria e Ballo a Fontanigorda), pubblicista e traduttore, Caproni si mostra sensibile verso gli allievi più disagiati, in ispecie gli orfanelli distinti dal grembiule nero («mio padre ottenne di averli tutti da lui, mentre normalmente erano sparsi», ricorda la figlia Silvana), arando «il terreno sassoso della povertà materiale e culturale». Nel ’51 si trasferisce alla «Francesco Crispi», dove ha per qualche tempo come vicino di casa Pier Paolo Pasolini (e ogni tanto ci scappava una «pastasciutta»). «Nell’ultimo periodo – prosegue Quarenghi – il maestro cedette il passo al poeta: dal 1971, infatti, Caproni non ebbe una sua scolaresca, ma fu protagonista di un progetto sulla poesia, che coinvolse le classi dell’istituto fino al 1973, quando si congedò definitivamente dalla scuola, dopo trentotto anni di insegnamento».

Che maestro fu Caproni? Inclusivo, vicino al metodo Montessori, rodarianamente impastato d’«amore», di «fantasia e dolcezza», desiderava costituire una scuola «allegra e piena di scoperte», organizzata sull’idea di lingua come «espressione di tutto lo scibile», reale trascendenza dei compartimenti stagni delle materie. Anzi, propugnava la possibilità di superare la divisione rigida tra le discipline, concentrandosi su un «insieme unico» intessuto di intelligenza, intuitività, etica. Aveva, insomma, una visione olistica del sapere. Eccone un esempio: «La stessa geometria oltre che ad essere un “corpo” (di nozioni) in sé, può e deve mirare soprattutto alla formazione morale del ragazzo. Retta, semiretta, segmento: la vita infinita di Dio, la vita dell’anima, la vita limitata del corpo, e così via» (ottobre 1962). E in questa direzione va anche una tarda autoconfessione radiofonica: «Ero la disperazione dei direttori didattici perché io, non avendo fatto le magistrali, non usavo gli orari, dall’ora tale storia, dalla talaltra geografia, aritmetica, italiano. Io per esempio spiegavo Garibaldi, tutt’a un tratto veniva un temporale, allora i ragazzini… “che cos’è?” e “che è?”… di Garibaldi non gliene fregava più nulla. Mi ricordo, entrò il direttore, dicendo: “Ma lei non doveva parlare di Garibaldi?”; e io dico: “Ma scusi, questi mi hanno chiesto che cosa sta succedendo e ho approfittato di tutto quest’interesse per far lezione di meteorologia”. Infatti impararono».

Davvero non siamo lontani dalla Grammatica della fantasia (1973) di Gianni Rodari, che vede ed esalta il potenziale positivo insito nei meccanismi creativi: «Quante volte essi (i ragazzi) credono di giocare, mentre io sto insegnando!» (febbraio 1959). Con un maestro simile non devono certo sorprendere le rivelazioni degli alunni a distanza di decenni, come quella del compositore Stefano Mainetti: «Tra elementari, medie, liceo, università e conservatorio ne ho avuti tanti di insegnanti nella mia vita, ma nessuno come Caproni… avere avuto quest’uomo vicino per tanti anni è stato fondamentale per la mia formazione».

Le metodologie didattiche adoperate da Caproni sono altamente raffinate e innovative: nelle sue classi tira già aria di flipped lession, brainstorming, ricerca-azione, cooperative learning. Ma è soprattutto la partecipazione attiva degli studenti, la cosiddetta lezione dialogata, a cambiare la percezione dello studio. Senza dimenticare la profonda umiltà che traspare particolarmente in una pagina di cronaca di vita scolastica del 1960: «La RAI ha trasmesso alcuni miei versi. Sorpresa degli scolari, già colpiti dall’intervista di un quarto d’ora alla TV, dove sono state lette alcune poesie mie, da me commentate, tratte da Il seme del piangere, premio Viareggio 1959. Potenza della radio e della TV! esclamo ironicamente. Ma ho subito smontato i miei piccoli… ammiratori: “Sono il vostro maestro, e voletemi bene come tale”».

C’è da chiedersi: l’attività di educatore ha plasmato la sua poesia? Sì, soprattutto nell’«essere più chiaro, più elementare», in quella nitidezza del dettato che è la cifra stilistica del Passaggio di Enea e del Seme del piangere. E così anche l’attenzione alla singolarità, la cura del dettaglio, l’ampiezza spirituale. Il 3 novembre 1962 scrive: «È accaduto un piccolo incidente. Stavo interrogando un alunno molto bravo, come si suol dire, e lo elogiavo per le sue risposte pronte e chiare, quando mi sono accorto, osservando un altro alunno, di certi segni d’invidia sul suo volto. Non è la prima volta, e mi son messo in attesa. Dopo poco, quell’alunno ha alzato la mano per accusare l’altro compagno di avergli tirato delle palline di carta. Non era vero, se l’era fabbricate da solo. Con molta prudenza, in una lezione di “religione”, ho cercato di mettere in rilievo tutta la bassezza di un tal sentimento. Alla fine della lezione, quell’alunno si è alzato, ha confessato la sua bugia e ha chiesto perdono al compagno». Il buon insegnante è come il buon poeta: è in grado di far divenire «viventi» «le cose aride», «gli oggetti più logorati dall’abitudine».

Per concludere, due immagini riescono a scolpire idealmente il Caproni maestro: la prima è il suo lascito di docente: «Penso che quando un maestro boccia un alunno, boccia in primo luogo sé stesso. È un suo fiasco personale, di lui maestro. È segno che per quell’alunno non si è impegnato quanto avrebbe dovuto. Mi sbaglio? Vorrei, dovessi morire in quest’anno scolastico, che questo fosse il mio piccolo testamento di piccolo e indegno maestro elementare» (giugno 1963). La seconda è un ricordo di Paolo Scotti sui memorabili esercizi del poeta: «Un giorno entra in classe e ci fa un dettato: “Stamattina mentre venivo a scuola, sulla porta del vivaio, lungo via Giovagnoli, c’era un uomo che mi ha chiamato; io avevo tanta fretta, ma l’ho seguito. Mi ha fatto entrare in una serra, dicendo che dentro c’erano tanti gioielli, e infatti la serra era piena di gioielli. Erano gli occhi dei miei bambini”».

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