Giorgio Bonomi, la fragilità di un’epoca racchiusa in un selfie
Fotografia «Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea», edito come i due precedenti del 2012 e 2017 da Rubbettino (pp. 366, euro 40)
Fotografia «Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea», edito come i due precedenti del 2012 e 2017 da Rubbettino (pp. 366, euro 40)
Da più di un decennio, indefesso, Giorgio Bonomi sta conducendo la sua indagine, giunta al suo terzo volume, su Il corpo solitario L’autoscatto nella fotografia contemporanea, edito come i due precedenti del 2012 e 2017 da Rubbettino (pp. 366, euro 40), come il quarto, in preparazione: un lavoro esplorativo di ricognizione con l’ambizione, consapevolmente utopica, della completezza. Il taglio trasversale di questa indagine, selezionando una specifica tipologia di immagini, allinea sul piano sia quegli artisti per i quali l’autoscatto costituisce un vero e proprio metodo di lavoro, sia quelli per cui si tratta di un’esperienza circoscritta, da incastonare in una ricerca più ampia e complessa.
A quel punto ci si rende conto che non è affatto facile trovare il bandolo della matassa per dare un ordine leggibile a questo materiale, individuando delle costanti, magari dei padri putativi, e registrare poi l’oscillazione di una tendenza rispetto a un’altra. Ma nella scelta, a monte, si è dato un criterio cruciale: documentare tramite questo strumento gli usi che si fanno del corpo umano, e del corpo nudo in particolare, attraverso la fotografia, aprendo scenari di ordine tanto estetico quanto sociologico. Fra «naked» e «nude», il corpo si mostra nella sua verità esplicita, al di fuori dei canoni, anzi forse proprio in virtù della propria disadorna crudezza ancora più testimone e segno dei tempi.
Il nudo raccontato in questo libro, per mano dei suoi stessi artefici, si colloca a tutti gli effetti al di fuori del recinto dell’astrazione assoluta e senza tempo ereditata dalla lezione accademica, e anche al di là degli aggiustamenti cosmetici e patinati della pubblicità (anch’essi storicamente connotati) per dare conto delle idee e delle fragilità di un’epoca. Le domande di fondo sono sempre le stesse: quanto sta nel campo della fotografia, o del «fotografico»? E quanto invece sconfina nella pura artisticità, o meglio ancora nell’artista che usa la macchina fotografica, ma lo fa con scopi che escono dalle specifiche prerogative della fotografia in senso stretto? Bonomi non divide fra interventi creativi e usi documentativi: fra artisti che manipolano l’immagine, e altri che la usano per dare conto di una situazione creata in un determinato contesto.
La via scelta dal critico, piuttosto, è di carattere iconografico, e sottintende un altro tema: come il corpo venga tematizzato di volta in volta dagli artisti e usato a tutti gli effetti come strumento del lavoro creativo stesso, manipolando l’immagine in ripresa o in postproduzione, o con gli strumenti delle tecniche d’avanguardia e dei loro sviluppi, come il collage.
Tutto si gioca sul rapporto che si instaura fra soggetto e macchina fotografica: l’autoscatto non è il selfie, ma l’obiettivo fotografico che l’autore rivolge su se stesso, anche se non sarà lui in prima persona ad eseguire lo scatto vero e proprio, con lo scopo di ritrarre una condizione che lui stesso ha creato. Forse è proprio questo aspetto, intrinseco alla natura del dispositivo, a emancipare questi scatti auto-prodotti (o auto-inflitti?) da una caduta nel voyeurismo.
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